Gli Amici della Maestra

ATLETICO MINACCIA FOOTBALL CLUB


Come facesse a non schiodare il culo dalla sedia e dargliene di santa ragione a quel giornalista impettito era un enigma che non riusciva a svelare.
Io al suo posto gli avrei già tirato contro uno scaldabagno a un tipo così. E forse proprio per questo lui allenava il Real Madrid mentre io stavo spalmato sulla sdraio di tela a farmi sgranocchiare dalle zanzare, su quel terrazzino di Mondragone che profumava di mare e munnezza.
José Mourinho era, a mio (e a suo stesso) modesto parere, il più grande allenatore del mondo.
E non parlo solo di tattica. Era un genio della comunicazione e dell'intrattenimento; uno così, avesse fatto il presentatore televisivo, avrebbe cremato Pippo Baudo.
Riusciva a mantenere uno stoico self-control  di fronte alle incombenze dei giornalisti, nonostante la sua squadra avesse miseramente perso la Supercoppa di Spagna contro il loffio Betis Siviglia.
"Io digo che la esquadra ha jucatu bene, il risultato di partita è bujardo. Ora conscentriamoci su campionatu, dove vinsceremu senza prublema, perchè esquadra è la migliore di Espagna", rispondeva flemmatico José, gli occhi semichiusi, la barba di tre giorni e la parlata ipnotica, soporifera.

"Con la rosa di campioni che ha, Mourinho, perdere col Betis? Almeno ammetta che la squadra non c'era oggi in campo! Fossi in lei sarei molto preoccupato" ribatteva il giornalista.
"Lei mi disce di essere preoccùpato. Io mi preoccùpo se mia moglie està male, se nipote ha febbre alta, se meu cane non va regulare a fare i bisogni... non se mia esquadra perde una Supercoppa".

Gesù, quanto avevo da imparare da quell'uomo.

Anche se a vedermi così non sembrava, con le infradito Havaianas e la canotta bucata, anch'io ero un allenatore di calcio. Sì, io e Mourinho eravamo colleghi. Diciamo che se ci fosse stato  un sindacato degli allenatori saremmo stati rappresentati dalla stessa sigla. Eravamo anche coetanei, solo che lui era nato a Setùbal da padre allenatore, mentre io avevo visto i natali a Torre Annunziata, da padre arrotino.
Avessi avuto anch'io il padre Ct, a masticare Plasmon e schemi, a quest'ora altro che Mondragone per fare due bagni con la bambina. sarei stato, come minimo, in ritiro con una squadra di Serie A per preparare l'imminente inizio di stagione. Cento per cento.
La mia carriera era iniziata otto anni prima, quando, appena trentasettenne, avevo cominciato ad allenare i ragazzi della scuola calcio Frattura di Torre Annunziata. Dopo il successone del campionato allievi, in cui raggiungemmo gli insperati play-off, venni chiamato ad allenare il real San Marzano che cercava un volto giovane per rilanciarsi nel campionato di Promozione. Sembrava un sogno. Avevo la tuta societaria, le trasferte pagate a metà (nel senso che loro mi pagavano l'andata, ma come tornare a casa era un problema mio), e talvolta anche interviste postpartita per testate regionali.
Mi esonerarono alla prima di ritorno, dopo il penultimo posto e i sette punti in classifica.
Da allora, negli ultimi sei anni, ho allenato un po' qui e un po' lì, tra campionati di Prima e di Seconda categoria, senza abbuscare una lira e collezionando esoneri infausti, esclusivamente per colpa della sfortuna che pareva perseguitarmi, subdola e sadica. E un anno si rompeva il centromediano, e un altro anno s'infortunavano tutti e due i terzini, e l'anno dopo ancora si sfasciava il crociato dell'unico centravanti che vedeva la porta. Ovvio che senza i migliori giocatori non ce la potessi fare.
Per Mourinho era facile, invece. Se si faceva male un terzino, ad esempio, bastava voltarsi in panchina e trovava una truppa di fluidificanti con polpacci grandi come angurie. Si faceva male il centrattacco? E dov'era il problema? Chiedeva al presidente un nuovo acquisto e il giorno dopo si presentava in ritiro una montagna umana da tre gol a partita.
Invece, quando si faceva male Crispino (seconda punta di movimento del Casoria Warriors), come alternativa c'era solo quel fracico di Buonaforte, che aveva pure i suoi trentanove anni, mica gli potevi dire qualcosa. Niente meno che quando lo incrociavo in allenamento gli davo del lei.  

(continua su Atletico Minaccia Football Club, Marco Marsullo, EINAUDI  STILE LIBERO BIG) 


Dedica dell'autore

"Per la Maestra e i suoi alunni: da uno che ha spedito il manoscritto ad Einaudi. Senza smettere mai di crederci, senza smettere mai di scrivere"





LE TERZINE PERDUTE DI DANTE




Prologo

Aveva visto. Le immagini colpivano i suoi occhi come una insopportabile luce estiva. Doveva agire. Si era fidato troppo di quelle persone. Non si sarebbero fermate davanti a nulla. Avrebbe dovuto fermarle lui.
Non sapeva se quella promessa di salvezza fosse un rimedio della sua parte razionale per impedirgli di impazzire. Oppure se c'era davvero una via di fuga, una guida per mettersi in salvo. Non sapeva neanche più quale fosse la strada da percorrere. Sapeva solo che doveva rivelare quel che aveva visto. Salvare l'umanità da un futuro terribile.
Doveva fuggire in fretta, abbandonare quel luogo oscuro e pieno di pericoli. E non lasciare tracce. Una lettera avrebbe rivelato troppo facilmente il suo piano. Doveva inventare qualcos'altro, lasciare un indizio che solo una persona fidata, speciale, potesse trovare.
Solo chi fosse stato in grado di capire avrebbe trovato il suo messaggio. Solo chi fosse stato abbastanza coraggioso, avveduto e assetato di conoscenza avrebbe scoperto la verità.
Erano vicini. Vedeva ondeggiare i loro mantelli rossi. Se non fosse corso via in fretta lo avrebbero raggiunto. Per l'ultima volta si guardò attorno. Il suo cuore gli diceva di non andare. Con una fitta nel petto violenta come una coltellata, lo avvertiva che ciò che stava lasciando dietro di sé era troppo importante per lui. Ma ormai sapeva quello che doveva fare. O almeno lo sperava.
Anche se non aveva certezze, non poteva permettersi ripensamenti. 
Non poteva più tornare indietro. 

1. La città su fiume

Il ponte, senza una via di fuga dal gelo della notte, sembrava troppo lungo da attraversare. Ma doveva farsi forza. Ancora uno sforzo, ancora pochi passi nella fredda città, e il suo misero alloggio lo avrebbe accolto. Non poteva certo definirlo una vera casa, ma era all'ombra della grande dimora di Nostra Signora e in ogni caso poteva trovarvi rifugio e trascorrere qualche ora serena. Senza che volti ostili si affacciassero al suo orizzonte. Senza che voci nemiche pronunciassero con disprezzo il suo nome.
A quell'ora le strade erano sporche e deserte. L'animazione del giorno, la vita che si riversava nelle vie rendendole un brulicare di arti e teste in movimento, si era spenta, lasciando il posto a un silenzio mortale. Solo qualche invisibile passante si trascinava con stanchezza interrompendo quell'eco di tomba vuota.
Di nuovo quei passi senza corpo, che lo perseguitavano nelle sue notti solitarie, che si fermavano davanti alla porta, che facevano eco ai suoi nel deserto notturno della città. Anche in quella situazione aveva l'impressione che ci fosse qualcuno che lo seguiva. E non era la prima volta. Da un po' di tempo si sentiva come un naufrago convinto di aver raggiunto un approdo sicuro, per poi scoprire che si trattava di una nuova terra piena di pericoli (...) 

(continua su Le terzine perdute di Dante, Bianca Garavelli, Baldini&Castoldi editore)


Dedica dell'autrice

"Alla Signora Maestra, ripensando alla mia amata maestra di qualche anno fa, Teresina, mai dimenticata, e a tutte le straordinarie maestre d'Italia!"





CRISCO DISCO




Giovedì pomeriggio. New York, 1977. Al 254 della 54esima Strada a Manhattan, il giovane Richie Kazcor, come sua consuetudine, sta trascorrendo del tempo ascoltando musica. Lo fa in compagnia di un piccolo gruppo di ragazze, impegnate a ripulire la pista e il bar del locale in cui si trovano: lo Studio 54. Da tempo ormai vero e proprio luogo di culto delle notti in città: tra star piccole e grandi che amano scatenarsi sulla pista alla musica che, proprio Richie mette dalla sua postazione. Senza saperlo, e per il solo fatto di amare la musica, ed in particolare la disco music, si è ritrovato ad essere una sorta di guru in fatto di gusti: la musica che piace a lui finisce per essere la più ascoltata, la più ballata ed infine la più acquistata, non solo a New York, ma in tutti gli States e finisce immancabilmente per sbarcare e sbancare anche in Europa.
In quel pomeriggio lo hanno avvertito che c’è della posta per lui. Come succedeva ormai da tempo, alcuni discografici gli inviavano dei demo o dei veri e propri dischi, con la speranza che Richie li facesse sentire in una serata allo Studio. Aveva tra le mani un rhum e cola quando aprì il pacchetto speditogli dalla Polydor. Conteneva il nuovo pezzo di Gloria Fowles, in arte: Gaynor; una che solo due anni prima si era fatta incoronare nientemeno che dal sindaco della città in persona, Abraham D. Beame, “Regina della disco”, e tutto grazie all’enorme successo di Never Can Say Goodbye. Richie pensò immediatamente che nonostante questi fasti la Gaynor era un po’ sparita dalla scena, e a dirla tutta il pezzo che gli veniva proposto, non era poi un granché. Si intitolava Substitute. Lo ascoltò assai poco convinto, ma avendo ancora del tempo e del rhum da finire, volle ascoltare anche il lato b di quel disco.


Smise presto si succhiare dalla cannuccia, così come smisero di tirare a lucido la pista le ragazze addette alla pulizia. Capì in un istante cosa aveva tra le mani, quale enorme potenzialità potesse avere quella canzone, rilegata dal gusto spesso insensato dei discografici ad essere solo un “lato b”! Iniziò subito a come inserirla in scaletta, anche se non era un’impresa da poco. Iniziava con un giro di pianoforte, senza alcun accompagnamento ritmico. La cosa avrebbe potuto stonare nel suo solito stile di far coincidere le ultime battute alla batteria di un pezzo con quelle iniziali del successivo. Ma la cosa non lo scoraggiò. Fu subito un successo enorme, tanto che, su intervento di Richie, la Polydor fece uscire il disco a facce invertite.

La canzone pare ormai vivere di vita propria e, come ogni oggetto di culto, è stata stravolta, rimaneggiata, innestata su altre musiche, citata e omaggiata in varie forme oltre che incisa in molte lingue e in una quantità notevole di versioni o cover, da quella ska a quella punk: penso in particolar modo all’interpretazione dei Cake, una band indie rock di Sacramento in California, a quella della Hermes House Band (con dei cori travolgenti), o ancora a Supreme di Robbie Williams, penso ai REM, alla versione a cappella dei Rockapella, o a quella in spagnolo fatta da Raquel Del Rosario, penso ancora a quella cantata da Andrei Calamaro, dai Las Seventies con arrangiamenti gitani, dall’italiana Dolcenera, dalle Puppini Sisters. Senza dimenticare la straordinaria versione di Shirley Bassey che ne accentua la drammaticità di alcune parti del testo.
I Will Survive è anche l'inno da stadio dei Feyenoord, una squadra di calcio Olandese, e dei Schalke 04, altra squadra di calcio ma tedesca. Legato a questa canzone conservo personalmente uno strano ricordo. Non so dire con esattezza se l’ho sognato, immaginato (più probabilmente desiderato), oppure l’ho visto davvero. Forse era uno di quei concerti di beneficenza in Vaticano a cui Giovanni Paolo II ci aveva abituato; lo scenario quello ormai familiare dell’Aula Nervi, la coreografia dunque assai suggestiva, con tanto di orchestra e coro in nero rigoroso. Qualche canzone tradizionale gospel (le quali sanno spesso essere di una noia del tutto particolare) e poi la sorpresa: Gloria Gaynor canta I Will Survive e Wojtyla lì, davanti a lei, ad ascoltare. L’inno per eccellenza, ad elezione planetaria, del popolo gay (mi sia passato il termine “popolo”) cantato dall’auto proclamatasi “Regina della disco” di fronte al Papa la cui dottrina morale non è stata certo storicamente riconosciuta tra le più progredite in merito.

And so you’re back from outer space. I just walked in to find you here without that sad look upon your face. I should have changed that stupid lock. I should have made you leave your key, if I’d known for joust one second you’d be back to bother me

Questa immagine racchiude in sé, involontariamente certo, se non per il modo in cui l’ho fruita, alcuni degli aspetti più significativi del camp, e che cercherò di illustrare in questo scritto; come ogni saggio, anche questo possiede pregi e difetti: per i primi mi rimetto al giudizio di quanti leggeranno questo lavoro, nell’elenco dei secondi segnalo da me un grande amore per l’oggetto di discussione, il quale forse può togliere obiettività, non a scapito, almeno mi auguro, della chiarezza.



Gianluca Meis e Luca Locati Luciani


dedica dell'autore

"Ringrazio la Maestra per questo grande piacere. Crisco Disco, a differenza dei libri che avete  già presentato non è un romanzo, ma un saggio. Nel suo interno ho comunque cercato di raccontare anche delle storie per restituire soprattutto il clima del periodo, oggetto del libro. Anche per questo ho chiesto venisse riportata non l'introduzione ma una parte, quasi narrativa, contenuta nel contributo che Gianluca Meis, una vostra conoscenza, ha realizzato. 
Buona lettura e buona scrittura a tutti".


UNDERCOVER




1.

Calabria, 1985

La lattina di birra rotola veloce lungo la strada scoscesa. Il suo fragore fa voltare le vecchie sulle seggiole, davanti agli usci delle case. Sono l’anima del paese queste donne dai volti scavati, tutte uguali nei loro fazzoletti neri, nelle vesti lunghe fino ai piedi, affacciate sul mondo come se lo guardassero  dal ponte di una nave, come se non fossero mare anche loro. Quegli occhi scuri hanno visto tutto, ma di fronte a una domanda si voltano altrove, e se lo trovi strano vuol dire che sei un forestiero, la gente del posto sa bene come vanno le cose sotto la barba dell’Aspromonte.  
I due bambini rincorrono l’improvvisato pallone sino a perdere il fiato, gli sguardi ebbri di vita che spera. La lattina arranca, ha incontrato una pendenza, poi un piede la blocca. La figura possente nasconde il cielo, è l’apparizione di un dio. Nino non ha bisogno di alzare gli occhi: riconosce l’uomo dalle scarpe, che pulisce ogni sera prima di coricarsi.
«Papà!».
La figura si china e gli parla sottovoce, con un tono di lama affilata.
«Quante volte ti dissi di non giocare coi figli degli sbirri?».
Il bambino vorrebbe piangere, invece si gira verso l’amico con un’aria corrucciata.
«Rocco, devo andare a casa».
L’altro, fermo a venti passi, accenna un saluto. Forse ha capito e forse no. Non sa ancora tante cose, alla vita bisogna dare il tempo d’insegnare.
  

2.

Velletri, 1999

«Avanti, entrate!».
Il comando del brigadiere tuona più forte delle auto in transito sulla strada e del cicaleccio dei familiari accalcati all’ingresso. Chi fremeva aspettando quel momento s’infila subito all’interno, altri li imitano con più o meno voglia. Per ultimo resta un tipo magro con la faccia da bambino, a cui daresti quindici anni se non sapessi che ha almeno l’età per arruolarsi. Non vuole lasciare la ragazza. Alla fine si decide, stacca la mano un po’ alla volta, con le dita che si sfiorano i due innamorati sembrano Dio e Adamo nella Creazione di Michelangelo.   
«Mi raccomando, chiama oggi stesso!» una voce di madre.
Spariscono oltre il portone, che scricchiola e si richiude pesantemente alle loro spalle, con un boato sordo che li stacca dagli affetti e dal passato. Davanti a loro c’è un grande cortile, nel mezzo un giovane dall’aria dura che li osserva, in attesa. Il caldo è forte, ma lui se ne sta impalato sotto il sole, tutt’uno con il suo berretto intonato alla divisa, una macchia scura nella piazza d’armi accesa di luce.
Con un gesto imperioso chiama a sé il brigadiere, che si mette in testa alla fila e procede. Le reclute lo seguono, gli zaini a tracolla e il peso più grande nel cuore: i dubbi, le paure. Tutti guardano il giovane al centro del cortile, che con la posa marziale e l’espressione indecifrabile sembra proprio il destino. 
«È un ufficiale» attacca il solito ben informato.
«Un tenente» gli fa eco uno che ha già visto quei gradi.
Avanzano. Lo fa anche il tempo, cinque minuti e sono già stati inquadrati: messi in fila dal più basso al più alto, su una riga immaginaria che devono rispettare come se ci fosse davvero.
«Vergognatevi, l’allineamento è una schifezza!» il brigadiere urla, non ne avrebbe voglia ma lo fa, il tenente è dietro le sue spalle per osservare e giudicare.  «De Cello, non vedi che sei un metro più avanti della riga?».
Il ragazzo nominato fa un passo indietro. L’effetto non migliora, ora sporge dall’altra parte. Non sta sbagliando nulla, è solo grasso, per quello occupa più spazio degli altri.
Anche il brigadiere se ne accorge. «A te penso io» lo minaccia, se lo vede già in tuta a fare giri di campo sotto il sole. 
«Liguori, non sei coperto! Mettiti a posto!».
La copertura: vuol dire farsi nascondere completamente dal collega che ti è davanti, solo così la fila è perfetta. 
Finalmente il caposquadra è soddisfatto, la massa informe comincia a somigliare a un reparto militare. Il tenente si avvicina, passa in rassegna la formazione guardando ogni allievo negli occhi come se lo volesse fulminare.
«Benvenuti alla Scuola marescialli!» esclama poi a sorpresa. «Per essere qui avete superato un concorso, dovete esserne fieri. Ma non illudetevi, la vera selezione comincia adesso».
Il seguito è un lungo copione di promesse buone e cattive. Saranno tutte mantenute.     


Dedica dell'autore:

"Se tutta la colpa della Maestra - e dei suoi allievi - è stimolare la mente con i temi interessanti che ho letto in questo blog… evviva i colpevoli! Continuate così, chi più scrive meglio scrive. E da oggi, sappiatelo, avete un lettore in più " 





IPAZIA



La biblioteca e il Serapeo

Alessandria d'Egitto, I° luglio 391 d.c.

"Devo intendere che non avete più papiro da vendermi?" .
Bella come il sole, Ipazia è rimasta ad occhi spalancati.  
Ritiro il rullo senza la necessaria pressura, inchiodato dal suo sguardo...miscuglio di sorpresa e delusione.
Mio padre Isidoro scuote lievemente il capo, i suoi occhi scrutatori sembrano addolcirsi: " La faccenda, mia signora, è molto più seria. La siccità di questi ultimi anni ha quasi distrutto la pianta. E le poche scorte di fogli di papiro, sono finite".
"Allora non mi resta che rivolgermi all' altro fornitore".
"E' quasi un anno che ha chiuso la sua attività...e, comunque, era specializzato in cordami, stuoie e vele. Noi siamo riusciti a lavorare fino adesso grazie alle scorte che avevamo. Mi spiace, se suo padre me l'avesse chiesto in tempo, avrei riservato per voi quel poco che abbiamo prodotto ultimamente".
E con il volto serio e incupito, accenna un sorriso di comprensione.
Ipazia è rimasta come folgorata, un lieve rossore le ha incendiato le gote: "Per le forniture si è sempre interessato Teone. Ma questa... questa è un'emergenza!" Scruta intensamente mio padre: "Dimmi come posso fare".
"Qui in Egitto per adesso non troverete neanche un foglio di Augusta. Se vi occorre una fornitura, potete tentare a Siracusa: è l'unica possibilità che vi rimane. Hanno imparato abbastanza bene e il foglio è di discreta qualità".
"In Trinacria?"
"Proprio così, mia signora".
"Occorrerà tempo...". E sfiora, con una mano, il tavolo da lavoro di mio padre. Poi siede su un banchetto d'olivo.
"Quanti rotoli vi occorrono?"
"Un minimo di centomila". Voce tremula che non riesce a celare frammenti d'ansia.
"Per tutte le costellazioni! Volete aprire un'altra biblioteca?"
"Quanto tempo potrebbe essere necessario?". Gli occhi accennano a liberare briciole di speranza,
"Per una quantità simile...almeno dodici mesi". Mio padre posa il piccolo batacchio con cui stava pestando i petali di ginestra secchi.
"Isidoro, a chi hai venduto le scorte che avevate? Ti prego".
"Non è un segreto: al patriarca".
Ipazia rialza la testa in modo fiero "A Teofilo? E che deve farci lui? E quanti rotoli ha comprato?".
"Cinquantamila: tutto quello che avevamo". Mio padre volge lo sguardo verso di me. "Mio figlio Shalim voleva conservarne un centinaio, ma il patriarca ha preteso anche quelli".
La giovane volge il capo, mi fissa stupita. "A che ti servono, Shalim?".
Come per incanto i segni della delusione e dell'amarezza svaniscono e il volto s'accende di una nuova luce.


E queste isole di luce sono esplose a casa mia. Ho paura, comincio a tremare, ma sento lo sguardo severo di mo padre su di me.
M'aggrappo ai manici del rullo.
"Disegno canali d'irrigazione e mulini".
"E costellazioni, e stelle, e cielo". Il tono di mio padre è grave, privo della minima inflessione di sarcasmo o di benevolenza.
Ipazia abbandona i miei occhi e volge gli occhi verso di lui. "Isidoro, perchè non ho mai visto questo ragazzo al nostro Centro Studi?"
E' una voce diversa, sconosciuta, non sembra appartenere all'angelo che sta a pochi piedi da me: è una voce ferma, come non ho mai sentito in una donna.
Mio padre aguzza gli occhi, smette di pestare i fiori di ginestra, molla il batacchio di marmo, sta per pesare le parole. Poi si decide a rispondere: "Mia giovane signora, Teone è uomo di scienza, nato e vissuto nella Biblioteca e ha fatto la scelta migliore nell'avviarti al suo stesso lavoro. E tu l'hai seguito fedelmente. Ed è esattamente quello che io sto facendo con Shalim."
"Non è così, Isidoro. Sai benissimo che io ho due fratelli maggiori, e che mio padre li ha avviati allo studio, come me. Ma non erano portati. E lui ha lasciato che seguissero le loro inclinazioni: Atanasio è commerciante, Epifanio è atleta e corre da una parte all'altra dell'Impero per gareggiare e prepararsi alle Olimpiadi".
"Anche in questo caso devo dissentire. I tuoi fratelli hanno potuto scegliere: la vostra è una famiglia che ha sempre goduto di sovvenzioni da parte dell'Impero per permettervi di svolgere la vostra attività. Io non so fare altro che lavorare il papiro e preparare inchiostri e colori: ho messo su questa piccola attività  ed ho assolutamente bisogno di Shalim perchè è un ragazzo sveglio, serio, fidato. Abbiamo raggiunto un livello elevato, il nostro foglio è molto buono, questa siccità dovrà pur passare, riprenderemo degli operai. E Shalim un giorno dirigerà questa azienda". Mio padre ha parlato con pacatezza, senza farsi inpressionare dal tono inflessibile di Ipazia.
Ma lei non sembra disposta a cedere: "Anche tu hai altre due figlie, Isidoro".
"Sono femmine, questa non è attività adatta a loro".
"Anche lo studio dell'astronomia e della matematica è sempre stato sentenziato ch'è adatto ai maschi. Eppure, adesso mio padre dice che un giorno supererò lui stesso"...




Dedica dell'Autore:

“Alla signora Maestra e a tutti i suoi allievi, sperando che la storia dell’altra grande maestra alessandrina possa far nascere su questo blog una discussione che serva ad onorare non solo Ipazia, ma anche tutte le donne che nella storia dell’umanità hanno lottato per contribuire al progresso della nostra specie. Con voi allievi e con la vostra luminosa Maestra dividerò il racconto di un disperato predatore di cielo come me che – da solo – ha trovato il sentiero che conduce al migliore dei mondi impossibili... quello del romanzo"






LA CITTA' D'ORO





Il visitatore della notte

Il morbo piegava Firenze.
Chi era fortunato moriva nel suo letto, altri cadevano fulminati per le strade, mentre si liberavano dell'incessante flusso che ne asciugava il corpo, togliendo loro ogni forza. Ombre infernali che camminavano febbricitanti, rasente ai muri.
In certi quarteri del popolo, a san Zanobi o intorno alle torri del Mercato Vecchio, in quel rigido inverno la morte prendeva con sé famiglie intere e nemmeno i bambini la commuovevano. Come due secoli prima, ai tempi della peste nera, i birri riempivano le case di paglia e fascine secche e in un lampo il fuoco divorava le mura e brillava nella notte, purificando nel fumo l'oscena maledizione che ormai da settimane divorava la città.
Il Segretario aveva cercato in ogni modo di contrastare l'epidemia. Ai primi morti, si era rivolto ai medici più autorevoli, e ben fuori città aveva fatto scavare le fosse comuni che avrebbero accolto le migliaia di cadaveri. I Fratelli della Misericordia andavano e venivano dal cuore di Firenze a porta San Gallo e a Porta Romana, e ancor di più la processione di cadaveri prendeva la via del Prato, sempre di notte, al lume dei ceri, verso l'immonda Sardinia, ricettacolo di rifiuti e carogne.
Ora il gelo potente aveva dato una tregua al contagio e, mentre camminava per la stretta via che portava al palazzo dei Signori, il Segretario osservava, rischiarata dalle torce, la fascia di sterco che dalla strada copriva i muri fino all'altezza del ventre. Eppure in quel momento non pensava al morbo. Aveva con sé qualcosa di più importante, un terribile segreto, un sogno indicibile, un'opportunità unica per la Repubblica, schiacciata dai nemici interni ed esterni: un piccolo libro poco più di un quaderno, che per qualcuno valeva come la perduta biblioteca di Alessandria e anche di più. Superò l'ultimo canto della via e una folata di vento gli tagliò il viso. Evitava con orrore i mucchi di sterco infetto e di urina ghiacciata, buttati nella notte dalla finestre. Gettò sopra un cumulo di neve nera i frammenti di una fiala di vetro: quell'ampolla era il suo demonio personale. Aveva ancora nelle orecchie l'eco di grida e lamenti che non avrebbe voluto provocare. Ma ricadeva sempre nella medesima debolezza e maledì i cerusici tutti e in particolare uno speziale senza scrupoli di sua conoscenza. Giurò che quella volta sarebbe stata l'ultima.
La luna bagnava l'alta facciata delvecchio palazzo dei Priori, montagna di pietra simbolo della ormai incerta potenza di Firenze. Il Primo Segretario della Repubblica attraversò la piazza rossa, seguito da due birr armati. Uomini fidati. I tempi non erano sicuri, ed erano in molti a desiderare la sua morte: non solo le spie dei Medici esiliatie i pisani in guerra, ma anche i fiorentini e perfino qualcuno dei suoi consiglieri.
Strinse più forte il mantello e calcò il cappuccio coprendosi la fronte, bagnata di sudore in estate come in inverno. Ogni cosa gli appariva nemica, perfino il vento del dicembre fiorentino, che mulinava intorno a lui quasi volesse portarlo via. Vide un cadavere, contratto in posa fetale, con la bocca spalancata in una specie di beffarda risata, che si figurò fosse rivolta a lui. Rabbrividì, ma il Segretario non credeva nei presagi, né in Dio né nel diavolo, né nella buona né nella cattiva sorte. Confidava che solo la propria forza avrebbe riscritto il destino suo e di Firenze. I birri batterono il legno della porticina in via della Ninna e la guardia del palazzo aprì subito. I corridoi e la ripida scala segreta del Duca d'Atene erano più freddi della piazza aperta, e il Segretario si tenne il mantello e il cappuccio. Lampade a olio rischiaravano, senza mandare fumo, le stanze del primo piano e finalmente vide baluginare il fuoco di un grande camino. Si tolse allora le pesanti vesti e liberò la testa magra e un po' scavata, nascosta sotto i capelli lisci e neri. Gli occhi furbi esplorarono l'ufficio della Camera Segreta Nera, il centro delle spie fiorentine, di cui lui era il signore assoluto: un universo chiuso e impenetrabile, territorio ignoto perfino al Gonfaloniere Pier Soderini. Le pareti erano coperte delle mappedelle città e delle nazioni del mondo, molte opera di Leonardo, che un tempo era stato suo valido e fidato collaboratore. Quando finalmente fu tranquillo, si rivolse al suo piccolo Vionate, gobbo e nero, l'uomo che più di tutti sentiva legato a sé.
"Il nostro ospite è ancora nelle sue stanze? Lo state sorvegliando come si deve?"
Il capo segreto della Camera Nera fiorentina sorrise, pensando all'uomo alto e magro delle isole britanniche.
"Protesta, Segretario, a voce alta e nella sua strana lingua"
"E' ben tenuto, come avevo disposto?"
Un principe non potrebbe avere trattamento migliore! Dispone di due stanze calde, per quanto senza finestre sulla strada. E mangia senz'altro meglio di noi. Ma strepita, grida che vuol rivedervi, e sono ormai tre giorni che..."
"E che mi dici di quell'altro?"
"E' al sicuro, ma ancora non..."
Al Segretario bastò un gesto della mano per zittire la sua fidata spia.
"E' il nostro segreto più prezioso, lo sai"
Violante annuì.
"Bene" sospirò il Segretario "Fammi avere tutto quanto"  

Dedica dell'Autore

Alla gloriosa Maestra e ai suoi sveglissimi allievi, dedico l'innocenza di Andrea e la forza della mia Rose: auguro loro un percorso irto di innumerevoli cocci aguzzi, simile al destino dei miei protagonisti, perché si possano fortificare a dovere. Vivere significa cambiare continuamente, rovesciare se stessi, trasformare i colori del mondo. Solo l'incontro con antagonisti adeguati porterà alla vera maturazione. Nella Città d'Oro, il Gigante senza nome è anche la proiezione della parte più oscura dei miei incubi: incontrate dunque voi stessi, nella scrittura, come ho fatto io, e se siete davvero in gamba, vincete questa sfida. E' di certo la più appassionante.






MUSES



prologo
PASSATO REMOTO

L’oscurità si squarcia. Veli di tenebre si diradano.
È come se fossi stata trasportata lontano. In un luogo e un tempo remoti. Il mio corpo si riflette sul marmo lucido del pavimento. Un alone che non riconosco. Non sono io. Non sono i miei lineamenti. È un uomo.
Poggio il violino sulle ginocchia, sopra la veste. Sfioro la cassa armonica, dalla bombatura accentuata e dalla verniciatura bruna, fino a lambire le corde. Batto le nocche della mano sul legno d’acero, e ascolto l’eco del suono che svanisce nel silenzio.
Sorrido. La mia opera d’arte, l’unico capolavoro degno di me. Io, il Padre delle Muse. Apollo.
Mi alzo in piedi e poso il violino a terra, vicino alla poltrona. Cammino lungo la sala immersa nella penombra, appena rischiarata dai candelabri ai quattro angoli della stanza. In fondo, la statua che mi raffigura spunta dall’oscurità. La osservo per un istante, seguo le curve del marmo. Ho lasciato che la scoprissero ad Anzio, cento anni fa, perché la considero il modello assoluto di perfezione estetica. La copia dell’opera di Leocare, che ha immortalato l’istante in cui ho ucciso Pitone.
Raggiungo la finestra e scosto la tenda. Guardo di sotto. Scorgo il piano delle logge e, in lontananza, il molo.
La notte ha inghiottito ogni angolo di Venezia. L’acqua dei canali è scura e densa come olio, nessuno si avventura per le strade a quest’ora così tarda. Il tempo, del resto, non è dei migliori. Il cielo, coperto da nuvole scure come antracite, è crepato da una ragnatela di lampi. I tuoni, in lontananza, rimbombano cupi.
Le mie figlie faranno meglio ad affrettarsi se vogliono evitare un terribile temporale. È giunto il giorno in cui devo scegliere il mio prossimo Discepolo, colui che accoglierà l’essenza del Musagète. I miei ordini sono stati chiari: riservatezza e massima cautela nelle vicinanze 
del Palazzo Ducale. Il Doge Veniero è in carica da appena sei mesi, ma presto riceverà una mia visita. 
Sento la porta schiudersi alle mie spalle.
— Mio Signore.
Neppure mi volto. È Lucrezia, la Musa della Scultura, una delle mie nove figlie.
— Fra pochi minuti ci raggiungeranno. Dobbiamo discutere, padre. Non possiamo rimandare, Venezia non è più un luogo sicuro.
Congiungo le mani al petto, sotto la veste. Riesco a intravedere una gondola nera che scivola nell’oscurità di un canale. I lampi sul rostro metallico a forma di testa di leone emettono un bagliore repentino.
— Avevo chiesto espressamente a Matthias di non farsi notare. E di rispettare la legislatura.
— Perché dovremmo modificare le gondole? È solo una legge stupida.
— Una legge in vigore dal 1562, più di quindici anni fa — preciso. 
— Ormai dovrebbe esservi noto. Sapete bene che il Doge Veniero desidera che rispettiamo le regole. 
— Il Doge ancora non ha capito con chi ha a che fare. Soffoco una risata. — Abbiamo ben altri pensieri. Devo trovare un nuovo Discepolo, mia adorata figlia.
Lucrezia alza un sopracciglio. — Matthias è testardo e pericoloso.
Annuisco. Lucrezia ha ragione, Matthias non cambierà mai. La Musa della Musica, l’Eccezione maschio, che da anni si diverte a ribellarsi ai miei ordini. Dietro di lui, sulla gondola, scorgo la sagoma corpulenta di Erzsébet,la Musa della Pittura. Sorregge un individuo con il capo coperto da un cappuccio.
Mi volto di scatto. — Cosa diavolo ha intenzione di fare? Lucrezia mi raggiunge e guarda di sotto, sconcertata. — Non ne ho idea. Gli avevo detto di venire da soli.
— Dov’è Marguerite? Perché non è con te? — le domando infuriato. Marguerite, la mia figlia prediletta, la Musa della Danza, non è mai in ritardo. 
Lucrezia scuote la testa e mi afferra un polso. — Dobbiamo fuggire, padre. Dobbiamo andarcene al più presto. Tu, Marguerite e io.
— Ho nove figlie, non dimenticarlo mai — le rispondo liberandomi dalla presa.
— Puoi contare solo su noi due. Non sfidare la sorte, padre.
Socchiudo gli occhi, cerco di calmarmi. Oltrepasso Lucrezia e mi avvicino al centro della sala. Alzo appena le mani, un vento caldo pervade la stanza. Le candele sulle nicchie scavate nelle pareti si accendono d’improvviso. 
Mi avvicino al cavalletto e tocco il velluto che riveste la tela. In quel momento, la porta della sala si spalanca.
— Apollo.
Mi volto lentamente. Matthias lascia cadere la mantella sul pavimento. I suoi capelli sono bagnati e appiccicati alla fronte. Gli occhi, iniettati di sangue, brillano come rubini. Alle sue spalle sopraggiunge Erzsébet, che adagia a terra un uomo incappucciato.
— Puoi chiamarmi padre — lo correggo.
— Non sei nostro padre. Siamo figli di Zeus e di Mnemosýne.
— Sono la vostra guida. Il padre che vi illumina la via. Comunque, se preferisci, puoi chiamarmi Andrea.
Matthias ricambia il mio sguardo con un’espressione di disgusto. — Andrea Armati era un pover’uomo. Un bravo liutaio. Una delle tue tante vittime.
— Discepolo, non vittima. È solo un corpo offerto al Musagète.
— La tua follia finirà stasera. È giunto il momento che tu scompaia per sempre.
Scoppio a ridere. — Davvero pensi di potermi fermare, Matthias?
Lui si china e toglie il cappuccio all’uomo prostrato sul pavimento, ancora privo di sensi. Riconosco subito il suo volto. È lui, l’Eclettico per eccellenza.
— Tintoretto.
Rimango in silenzio per qualche istante, esterrefatto. Marguerite mi aveva avvertito: l’Eccezione, la Musa maschio, da mesi tramava contro di me, suo padre. Intendeva annullare ogni mio potere, eliminare l’influenza sulle mie nove figlie. 
— Prostrati ai miei piedi, Matthias!
La mia voce rimbomba nella stanza. La luce delle candele si spegne all’istante. Matthias si piega sulle ginocchia. Digrigna i denti, la fronte imperlata di sudore.
— Tutto questo è destinato a finire. Non riuscirai a reincarnarti di nuovo, Apollo.
Cerco lo sguardo di Lucrezia, che annuisce sospirando. Non posso mostrare alcuna debolezza, né ora né mai. 
L’Eccezione va eliminata. Infilo la mano sotto la veste ed estraggo un coltello.
— Perché mi costringi a farlo, Matthias? Appena muovo un passo, Erzsébet mi si para davanti. 
— Non azzardarti a sfiorarlo.
Sostengo il suo sguardo. Un’altra figlia che mi sfida e mi tradisce. — Dove avete nascosto Marguerite?
— Marguerite non farà più del male. Non sarà più la carnefice di nessuno — ringhia Erzsébet. — È la fine, Apollo. Lascia libero Matthias.
In quel momento, altre sagome entrano dalla porta d’ingresso. Õinomikado, Louise, Juana, Antonia, Leonor. 
Le mie altre cinque figlie. Le guardo una a una, mentre i miei occhi si velano di lacrime. 
— Siete giunte tutte a Venezia. Avete abbracciato la follia di vostro fratello Matthias. Sette Muse traditrici, che desiderano uccidere il loro creatore. Parricidi, abomini della natura!
— Tu, Apollo, sei l’unico abominio della natura! Le Muse non dovranno più sottostare alla tua crudeltà. Mai più! — sibila Matthias, sforzandosi di rimettersi in piedi.
La rabbia annienta la compassione. Non posso sopportare oltre quest’oltraggio, il sacrificio dell’Eccezione sarà di esempio per le altre Muse.
Alzo la mano sinistra. A quel gesto, Erzsébet si piega in avanti, tossisce e geme dal dolore. Stringo l’impugnatura del coltello, mi avvicino a Matthias.
— Avrei voluto che le cose andassero diversamente — gli sussurro impassibile. Ma quando tento di allungare la lama fino alla sua gola, il braccio si ferma come se una presenza invisibile avesse afferrato il mio polso.
Sgrano gli occhi. Sul pavimento si illuminano lingue di polvere, brillanti come frammenti di diamante. Seguo le loro curve, gli angoli.
— Un triscele?
— Proprio così, Apollo.
Dietro le Muse compare una figura. È un uomo che dimostra una cinquantina d’anni. Viso spigoloso, naso aquilino, fronte solcata da rughe profonde e capelli bianchi che gli ricadono sulle spalle. Gli occhi, piccoli e grigi, m’infilzano come spilli.
— Juan Gómez — mormora Matthias, alzandosi da terra.
Rimango sbalordito. L’Eccezione è quindi riuscita nel suo intento. Ha trovato il Krisnitòri delle Streghe Kalé, nascosto in Catalogna. Marguerite mi aveva messo in 
guardia, avvertendomi dei frequenti viaggi di Matthias a Barcellona per ricercare l’anziano Krisnitòri, al quale avrebbe offerto i suoi servigi di Musa in cambio di un potente incantesimo di magia nera.
Ma Matthias si sbaglia, Juan è solo un cialtrone che si diverte a deviare la natura con stupidi giochetti. Non esiste alcun modo per uccidere Apollo. È solo una leggenda priva di fondamento. Juan Gómez avanza di un passo e mi saluta con un cenno della testa. Sussurra frasi che riesco a udire a stento. Il coltello mi scivola via dalla mano e levita a mezz’aria, fino a raggiungere i suoi piedi.
Erzsébet, nel frattempo, è arrivata alle spalle di Lucrezia e le punta una lama alla gola.
— Non osare fare del male a tua sorella! — urlo inferocito.
Cerco lo sguardo di Erzsébet. Scavo nei suoi pensieri. 
Dentro la sua anima, negli angoli più oscuri. Voglio prendere possesso del suo corpo e schiacciare la sua volontà.
Ogni mio sforzo si rivela però del tutto inutile. Non riesco a superare la linea di confine del triscele.
— Vi pentirete di quello che state facendo! La finestra si spalanca, raffiche di vento sferzano gelide, gonfiando le tende e spegnendo le candele.
Il panno viola che copre la tela cade a terra. I lampi illuminano per pochi istanti il dipinto di Tintoretto. Apollo è rappresentato al centro con una corona di alloro sulla testa, ma sotto di lui ci sono solo sette Muse, una delle quali ha fattezze di uomo, proprio come l’Eccezione maschio. I loro lineamenti assomigliano a quelli delle mie figlie, tranne Lucrezia e Marguerite.
Non ho tempo per osservarlo un istante di più. Juan ha riposto a terra una coppa, un piatto e una scatola d’oro, gli stessi oggetti raffigurati nel quadro di Tintoretto. Matthias, Erzsébet e Õinomikado si tagliano il polpastrello del dito indice, lasciano cadere una goccia di sangue nella coppa.
— Muse della Musica, della Scrittura e della Pittura. Il sangue della Triade — pronuncia Juan. Riversa il contenuto della coppa sul piatto, quindi lo avvicina alla mano di Tintoretto. Ne lacera il palmo mentre salmodia una litania.
Una fitta di dolore, come di una stilettata nelle scapole, mi costringe ad accasciarmi a terra. Lucrezia urla in lontananza, bloccata da due figlie traditrici.
La vista si appanna. Le braccia e le gambe si immobilizzano come blocchi di pietra.
— Maledetti… — sussurro senza riuscire neppure a respirare.
— È la fine, Apollo. Il rito è concluso — aggiunge Matthias. — L’essenza del Musagète sarà esiliata per sempre nei Campi Elisi. Morirai senza più avere possibilità di reincarnarti. Il corpo di Andrea Amati sarà ritrovato privo di vita fra quattro giorni esatti, alla vigilia del Natale dell’anno 1577, a Cremona. Adesso, che le fiamme incendino il Palazzo Ducale.
Le forze stanno per abbandonarmi. L’oscurità si fa spazio nel mio animo, divorando la coscienza. Crollo a terra, rivolgo l’ultimo sguardo alle mie figlie traditrici.
— Che vi perdiate per sempre, Muse, nel caos del mondo che vi circonda. Tramanderete i vostri poteri di madre in figlia, per secoli e secoli, finché il talento che vi ho donato si indebolirà fino a estinguersi. Che siate maledette, voi e la vostra discendenza, fino al vostro ultimo anelito di vita, dopo quaranta primavere… Oltre la morte, c’è solo la polvere!
La voce si spezza. Il cuore del liutaio Armati smette di battere.
Poi, il silenzio dell’eternità si chiude su di me.



Dedica alla Maestra








LA CANZONE DEL BAMBINO SCOMPARSO




Raffaella Carrà si librava nell’aria cristallina di una mattina di giugno. 
Le gambe, tornite e dritte, spuntavano da un body luccicante.
Le braccia erano abbandonate lungo i fianchi. 
Neanche un capello fuori posto, a parte il lungo filo che le usciva dalla testa.
Pochi centimetri dietro di lei, Loretta Goggi scivolava a sua volta leggera nel vento. Era vestita di chiffon e anche lei aveva un filo conficcato nella testa.
Ultima era Mita Medici, volava male, più lenta e più in basso delle altre. 
Questo perché Vincenzo odiava sudare, così correva piano e la foto stentava a prendere quota. 
Che gioco cretino. E poi lui Mita Medici non la voleva. Lui voleva la Carrà. Ma la Carrà l’aveva rubata Boris, che s’era intromesso solo perché non aveva niente di meglio da fare. Vincenzo aveva passato due ore a ritagliare le tre show girl da una vecchia copia di Sorrisi e Canzoni, voleva giocare da solo e il suo sarebbe stato tutto un altro gioco. Poi era arrivata Mariella, che aveva avuto l’idea di attaccare i fili. Probabilmente pensava di creare qualcosa di simile a delle marionette. Invece Boris, tanto per ridicolizzare il loro gioco, aveva arraffato la Carrà e s’era messo a correre. Quella scema di Mariella aveva subito trovato la cosa divertente e lo aveva seguito, trascinandosi dietro la Goggi. A Vincenzo non restò che seguirli, più che altro perché voleva recuperare le sue foto. Si sentiva abbastanza a disagio a correre in quel modo, soprattutto perché gli era toccata Mita Medici. Chi era Mita Medici, si domandava sull’orlo del pianto. Una che aveva fatto Canzonissima in un teatro piccolo, con pochi ballerini e una sigla bruttissima. Quelli della televisione avevano deciso di trasmetterla la domenica pomeriggio, così la gente stava a casa a guardare la tv invece di andare in giro con la macchina, che tanto con la macchina non ci si poteva andare perché c’è la crisi e la benzina è finita. Questo, almeno, gli aveva spiegato confusamente sua mamma l’inverno scorso, promettendogli che, se faceva il bravo, gli avrebbe comprato i pattini per pattinare lungo la statale le domeniche che non circolavano le macchine. Invece le macchine avevano ripreso a circolare e lui niente pattini.
Intanto, mentre Mita Medici perdeva sempre più quota, Raffaella e Loretta, inarrivabili come due comete, svoltarono l’angolo della casa e scivolarono – una di qua, l’altra di là – ai lati delle orecchie di Rino Vanarosa, babbo di Vincenzo.
L’uomo bestemmiò quando Boris e Mariella gli sfrecciarono davanti. Mulinò le braccia in aria, cercando di afferrare le due soubrette come King Kong con Jessica Lange, ma siccome non ci riuscì se la prese col figlio. Boris e Mariella se la diedero a gambe.
Rino Vanarosa arpionò Vincenzo per un braccio e gli strappò Mita Medici dalle mani, la accartocciò e la lanciò a terra, dove un pietoso refolo di vento la spedì sotto una 128 verde.
“Ma sei deficiente, sei!” cominciò a urlare prendendo a sberle il figlio. “Correre dietro dei ritagli di giornale, ma si può!” E giù botte. Vincenzo si mise a piangere, ma il padre non smetteva. Quando cominciava non la smetteva più. Prima di stringere forte gli occhi, Vincenzo fece in tempo a vedere Raffaella Carrà e Loretta Goggi sparire algide e indifferenti nella dissolvenza azzurra del cielo. 

2
Il gioco, uno di quelli articolati e complessi che Vincenzo faceva da solo nella sua camera, consisteva nel dirigere Sorrisi e Canzoni TV. Il regalo più bello che la zia Odette gli aveva fatto per la comunione era questo completo da scrivania. Cartella di pelle porta documenti, due penne, una a sfera e una stilografica, block notes con copertina di pelle e una calcolatrice al quarzo coi numeri rossi.
Sul suo tavolo da direttore c’era anche un telefono, ovviamente. Quella stupida della Zanicchi aveva appena annullato un’intervista e lui doveva assolutamente chiudere il giornale. Mina, non restava che telefonare alla sua cara amica Mina e, come al solito, chiederle se poteva toglierlo dai guai.
Mentre faceva il numero della casa di Mina si girò per prendere una matita e cacciare in malo modo la nuova segretaria, ma il suo sguardo venne catturato dalla finestra e si perse negli sterminati campi di tabacco. Vincenzo avvertì una stretta alla pancia. Fine del gioco. Stupida campagna. 
Lì fuori avrebbe dovuto esserci Milano, i tram e i grattacieli. Avrebbe dovuto sentire il rumore del traffico e non gli uccelli che cinguettavano fra i rami dell’acacia. Susanna gli aveva detto che a Milano gli uccelli nemmeno si sentivano, c’era solo il rumore delle macchine e quando non passavano le macchine c’era il rumore dei tacchi delle signore eleganti che guardavano le vetrine.
Riagganciò il telefono giocattolo e si alzò dalla scrivania. Il viso ancora gli bruciava per gli schiaffi del padre. Ogni tanto dal centro del suo petto partivano due o tre respiri incontrollati, come gli capitava sempre quando piangeva troppo a lungo.
Adesso era in piedi davanti alla finestra. Guardava la strada a due corsie e poi la casa della Rosa e poi basta, perché subito dopo cominciava la grande curva, oltre la quale c’era il rettilineo con la casa di Mariella e, in fondo, il distributore di benzina col bar e l’alimentari del padre di Boris. 
Dopo di che, il nulla. O per meglio dire: sterminati campi di tabacco che si estendevano piatti per chilometri e chilometri, fino a quando, a fungere da linea dell’orizzonte, non si innalzavano le colline, oltre le quali, tutte le sere, si inabissava il sole. Questo era la frazione di Olivella, una desolata placca tettonica, un modesto e marginale tassello scivolato via dal puzzle complesso e variegato del mondo. 
Se avevi bisogno di qualcosa di diverso dai campi, dai trattori, dai sentieri attraversati dai tubi gocciolanti degli impianti di irrigazione, dovevi cercare altrove.
La scuola media e l’istituto superiore, le pizzerie, il cinema e i negozi, erano tutti a Civita Tiberina, che distava almeno venti chilometri di macchina o di corriera. 
Il mondo che interessava Vincenzo, poi, da Olivella era lontano quanto la luna.
Dietro i vetri il vento smuoveva piano i rami dell’acacia, grappoli di fiori bianchi dondolavano pigramente in mezzo al verde delle foglie.
Giù in strada passò Boris con la vecchia bicicletta di sua nonna. Una bici enorme, grigia, da donna. Vincenzo avrebbe dovuto essere arrabbiato con lui. In fondo era colpa sua se il padre lo aveva beccato a correre come uno scemo con Mita Medici attaccata al filo e lo aveva riempito di botte. Ma Vincenzo non era per niente arrabbiato con Boris. Lo guardava pedalare come un matto, di certo andava giù a Ponte Basso a giocare con gli altri. Una banda di ragazzi che trascorreva le giornate a costruire lance e frecce e ad appostarsi dentro i fossi per tirarsele. Spesso qualcuno finiva al pronto soccorso. A Boris, l’anno scorso, un bastone a punta gli aveva passato la guancia da parte a parte. Adesso aveva una cicatrice a forma di sette rosa chiaro proprio sotto l’occhio. Vincenzo ogni tanto aveva voglia di toccarla, quella cicatrice, ma gli mancava il coraggio. Boris aveva tre anni più di lui, quell’estate avrebbe finito le medie, era grosso e a volte minaccioso. Capitava molto raramente che rivolgesse la parola a Vincenzo, in genere nei momenti di noia più profonda, quando in giro non c’era proprio nessun altro. Il suo modo di fare, la prepotenza che esprimeva anche senza fare niente, gettavano Vincenzo in uno stato di tensione e segretissima ammirazione. Chiuse gli occhi e sentì il rumore delle macchine da scrivere, dei telefoni che trillavano e dei tram giù in strada. Doveva telefonare a Mina per l’intervista. Quando riaprì gli occhi per tornare alla sua scrivania, Boris era quasi scomparso dietro alla curva, ma Vincenzo fece in tempo a vederlo sputare. 
Aveva calcolato che Boris sapeva sputare almeno in tre differenti modi. Il primo era quello classico, con lo sputazzo che faceva un suono tipo scratciù! Poi ce n’era uno che lo sputazzo passava direttamente in mezzo ai denti e il suono era tzzzz! Poi uno che lo sputazzo te lo dovevi sistemare sulla punta della lingua e lanciarlo fuori con un suono che era tipo sfluut!
Boris alternava gli stili di sputo a suo piacimento, senza un preciso criterio. Almeno così sembrava a Vincenzo, che appena poteva studiava Boris con una certa attenzione. Di sicuro Boris sputava un sacco, la saliva non la ingoiava mai, la usava per marcare il territorio o i sandali di Mariella.
Vincenzo aprì la finestra e provò tutti e tre gli stili di sputo, finì che si sbavò il mento e il collo della maglietta. Ormai l’intervista con Mina l’avrebbe rimandata a domani. Era stanco, si stese sul letto e fece finta di essere Boris che si spogliava nudo e poi dormiva. 

Giovanni Pannacci



dedica dell'autore


"Alla maestra, che come tutti i leader illuminati, permette alla sua classe di trasgredire."







IO CHE AMO SOLO TE



Il primo ad arrivare fu l’ospite meno atteso.
Il maestrale si presentò con un giorno di anticipo, senza preavviso e senza regalo. Ninella lo aveva sentito dal letto ed era rimasta immobile, attonita. Un po’ come quando ti svegli e senti che ti è venuta la febbre. Allora ti giri dall’altra parte, ti metti in posizione fetale, e speri che i brividi ti lascino in pace. Ma lei conosceva troppo bene il rumore delle sue persiane nei giorni in cui arrivava quel vento. Fastidioso, insistente, una campana che non smette mai di suonare. Si stava avvicinando il grande appuntamento, con il suo carico di sogni e parenti.
Ninella non pensò all’abito bianco di Chiara, ma al suo. La parte bassa avrebbe spiccato il volo scoprendole le gambe, e finalmente tutti si sarebbero accorti che non aveva la cellulite. O almeno, a lei non pareva di averne, pur essendo un po’ sovrappeso. Sicuramente ne aveva meno della consuocera, e questo era più che sufficiente per allontanare la paura.
Per lei il maestrale era la peggiore sventura che si potesse abbattere su un matrimonio. Quasi come una bomboniera sbagliata, due cugini che restano senza tavolo, o due cozze che restano sullo stomaco. Perché nelle settimane successive – nei mesi, addirittura – gli invitati avrebbero raccontato tutto iniziando con: “Se non ci fosse stato il vento”, dedicando meno parole alla sala, alle rose, alla sposa e alla casa.
Mancava ancora un giorno, e il maestrale a volte dura solo ventiquattr’ore. Se però aveva deciso di farsi sentire proprio alla vigilia delle nozze di sua figlia, non li avrebbe lasciati fino a quando l’ultimo parente avesse finito di mangiare la torta zebrata.
Si alzò dal letto e, prima di affacciarsi a vedere il mare – voleva ritardare quel momento – si avvicinò allo specchio. Il volto tondo, il decolletè generoso, la bocca carnosa di chi sa baciare. Davanti alla sua immagine riflessa, si sentì quasi in colpa per il sorriso che le era comparso mentre si accarezzava la testa. Stava per farsi i colpi di sole.
Li aveva desiderati da mesi, i colpi di sole, da quando li aveva visti a sua cognata, che la faceva sentire ogni volta una provinciale. Lei che andava alla Spa, aveva una foto con Mara Venier e diceva frasi come: “dovresti provare lo yoga”; e “come fai a non avere ancora il Bimby”.

Ma venatinn’, mormorava Ninella. Ora che però aveva trovato il coraggio di cambiare tono al suo castano monocorde, il vento le scombinava i piani. Per fortuna nulla avrebbe potuto fermare la lacca di Lucia Coiffeur! 
Guardò il mare della sua Polignano e provò a intonare: “Volare, Oh-Oh, Cantare… Oh-Oh-Oh-Oh”. Dopo un momento di euforia, venne assalita dalla commozione. Sembrava schizofrenica.
Se l’avessero vista le sue vicine, si sarebbero sorprese nell’osservare una donna tanto sicura di sé in balia dei nervi. Ma alla mamma della sposa tutto è concesso, soprattutto se vedova. Spalancò definitivamente le persiane, le fissò ai lati, si lasciò investire dalla luce e riprese a cantare: “Nel blu, dipinto di blu, felice di stare lassù, con te”.
Si preparò cercando di fare meno rumore possibile, per non svegliare le figlie, mentre imprecava sottovoce contro tutto e tutti: “Ma cazzo!”, diceva sempre. Se la prese pure con le previsioni che avevano annunciato “mari calmi o leggermente mossi”. E questo vi sembra leggermente mosso?
Prima di uscire, vide il capro espiatorio contro cui sfogare la rabbia che le stava montando: il piatto della Cote d’Azur appeso al muro. Uno di quegli oggetti ricordo che stava lì da anni e che non era mai riuscita a digerire, né a far sparire, con il bordino d’oro e le immagini stilizzate di Menton, Cannes, Nice e Antibes. In mezzo, un termometro a mercurio che non si era mai mosso oltre i 12 gradi. Conosceva ogni dettaglio di quel piatto, perché sua cognata – che per tutti era zia Dora – ogni volta glielo indicava dicendo: “Quando andrai in Costa Azzurra devi sentire che buona la ratatouille”.
Ninella chiuse tutte le porte, si rintanò in un angolo della cucina, staccò il piatto dal muro e lo lasciò cadere a terra. Sentire quel rumore le diede un sollievo istantaneo e due nuovi grattacapi: cosa avrebbe detto a zia Dora quando avrebbe visto che il piatto non c’era più?;
il mercurio è tossico?
Acchiappò quella goccia con non poche difficoltà e provò a disperderla nel lavandino sentendosi subito in colpa. Non raccolse nemmeno i cocci di Menton e Antibes. Si tirò indietro i capelli, mise in testa un cappello che secondo lei la slanciava, e in un attimo si trovò in strada. Il vento non sembrava poi tanto forte, e il cielo era così azzurro da rassicurarla. La rassicurava meno la signora Labbate, che la spiava dietro le persiane, e che sicuramente un po’ gliel’aveva tirata perché aveva ricevuto solo la partecipazione. Lei se ne fregava e si difendeva dietro spalle larghe e una determinazione che non l’aveva mai abbandonata. Tutte le volte che era stata sul punto di sprofondare, si era sempre aggrappata alla sua casa.
La casa era l’unica certezza che aveva: era in pietra, ed era a picco sul mare. Da lì si poteva volare o farla finita. Bastava un salto e nessuno avrebbe saputo più nulla di lei. Ma Ninella si era sempre arresa alla vita, e ora, a cinquant’anni appena compiuti, ce l’aveva quasi fatta a essere felice.
Raggiunse piazza dell’Orologio a passo spedito, cercando di calpestare tutte le righe che delimitavano le chianche dei vicoli. Quel gioco un po’ infantile era il suo modo di evitare lo sguardo dei passanti.
La piazza era di un bianco splendente, interrotto solo dai tetti e dal cielo. Entrò nella chiesa Matrice, che negli anni era diventata la sua seconda dimora. Quando in casa c’era troppo rumore, lei si rifugiava in chiesa. Stava lì in silenzio, senza pregare né pensare. Si svuotava semplicemente la testa, divertendosi a essere scambiata per una persona devota. Con San Vito aveva la confidenza che si può avere con certi sconosciuti. Ogni tanto gli parlava e si raccomandava a lui, senza esserne troppo convinta. Ma quando si è soli è più facile parlare con i santi.
Si mise a sedere e cominciò a brontolare che lui non gliela doveva fare, questa cosa del vento. Lei non si era mai persa una processione e una volta aveva partecipato anche con 37.5 di temperatura, che per tanti non è febbre ma per lei sì. Per questo un po’ se lo aspettava, un piccolo miracolo, e non le sembrava di chiedere chissà che.
Mentre usciva, davanti al portone su cui si soffermava ogni volta da quanto era bello, incontrò la signora Labbate, che forse l’aveva seguita e non perse occasione per ribadire: “Proprio oggi doveva alzarsi, ‘sto vento, proprio oggi. Ho sentito che dura una settimana”.
Ninella fece le corna di nascosto e non disse nulla. Poco dopo, però, fu costretta ad affrontare la questione perché tutte le persone che incontrava non facevano altro che dire: “Che sfortuna, proprio oggi”, e lei pensò che neanche nei Malavoglia succedeva una cosa del genere, che la gente ti faceva le condoglianze per una giornata così.
In cuor suo sapeva che il maestrale non era solo il vento che spazza via tutto e non vuole sentire ragioni. Era l’ultima prova da superare.
Le lacrime fecero capolino ma le scacciò con le mani e la volontà, esercizio che ormai le riusciva senza sforzi. Tornò a casa facendo un giro strano tra i vicoli, quasi a far perdere le sue tracce.
 Aprì la porta facendo meno rumore possibile. Le sue figlie ancora dormivano, ciascuna nella sua camera, in quel piccolo mondo che era un saliscendi di scale e stanzette ad eccezione di una: la cucina. Grande, piena di luce, di piatti e di mare.
Vista da una barca, sembrava uno scoglio da cui tuffarsi, e più di una volta aveva fatto entrare i turisti in casa per fargliela vedere. “Very beautiful”, le dicevano sempre. Be-a-u-ti-ful. “Ma mica è un trullo?”, mormorava quando andavano via.
Salì in camera e le sembrò di ritrovare suo marito nella stessa posizione in cui lo aveva visto dormire per anni, con il sorriso sul volto e le mani sotto il cuscino. Quel venerdì, però, non c’era niente da ridere. Si tuffò nel letto all’indietro come una bambina. Con gli occhi incollati al soffitto, pensò che mancava ancora un giorno al grande passo. E in un giorno potevano accadere tante cose.


Dedica dell' autore

Cara maestra, non cercare di essere imparziale...
perché fa parte degli esseri umani avere sempre qualche preferenza.
Cerca piuttosto di non essere noiosa!!! 




OMBRA BIANCA






Poi nacque Lei


Il corpo della madre si aprì per farle strada alla vita. I vagiti furiosi trapassarono la porta di lamiera della capanna e giunsero fino al cortile gremito. Una nascita era sempre un evento che coinvolgeva l’intera comunità dell’isola di Ukerewe; un fazzoletto di terra pianeggiante con un tripudio di sfumature dal verde mela al verde smeraldo, incorniciata dal blu intenso del Lago Vittoria.
Il nostro spicchio di cielo a terra, pensò Sefu, il padre della neonata, in attesa che la porta di casa si aprisse.
Il tempo passava, e la porta restava ostinatamente chiusa. Si era nella stagione delle piccole piogge, quando il tempo è volubile e capriccioso. Era quasi il tramonto, e l’aria fresca s’imbeveva della luce rossastra degli ultimi raggi di sole; tuttavia Sefu respirava l’odore inconfondibile della pioggia. Presentiva che il buio delle prime ore della notte avrebbe generato, con l’aiuto dei venti monsonici, i grossi grappoli di nubi che all’alba avrebbero riversato a terra l’acqua proveniente dall’Oceano Indiano.
A un tratto la porta della capanna si aprì e una donna fece cenno a Sefu di entrare. Sul cortile scese la quiete. Lui oltrepassò la soglia di casa e il sorriso gli morì sulle labbra. Vide sua figlia dormire nuda su una stuoia. Sbarrò gli occhi e si afferrò i capelli con entrambe le mani. Il corpo paralizzato, gli occhi ipnotizzati dal corpicino che volle toccare con un dito auspicando fosse una sua fantasia. Era invece indiscutibile. Benché fossero trascorse alcune ore dalla nascita, la pelle di sua figlia era lattea come quando dalle acque del ventre di sua madre era venuta alla luce. È un’ombra bianca, continuava a ripetersi e a negarselo.
Nella capanna l’aria era impregnata di un silenzio mortale.

Come ho fatto a procreare un essere simile? Sono stato posseduto da spiriti malvagi mentre mi univo con Juma? O forse quel demonio è frutto del seme di un altro uomo? Deve essere così. Una maledizione scagliata dagli Spiriti del lago in seguito al tradimento della mia seconda moglie.
«Dovrà morire» sentenziò Sefu. Poi si voltò e uscì.
Juma era alla sua prima gravidanza portata a termine. Ripensò a quando, nelle stagioni passate, aveva avuto due aborti, seguiti da emorragie che pareva volessero prosciugarle l’anima, oltre che il corpo. Quando era rimasta di nuovo incinta aveva sentito nel profondo delle sue viscere che quella creatura sarebbe vissuta. Le pareva di vederla aggrappata con le piccole dita al suo grembo, ostinata, decisa a sopravvivere.
Ricordava come la notizia del concepimento si era diffusa sull’isola di Ukerewe come il fuoco su un manto d’erba arida. Chiunque era stato felice. Aveva visto i torrenti e il lago rallegrarsi e gonfiare le acque oltre le sponde. Gli alberi avevano prodotto germogli vigorosi e formato ombre più lunghe. Aveva sfiorato e calpestato l’erba diventata più verde e fitta. Aveva udito gli uccelli cinguettare più forte che mai e la pioggia cadere violenta come colpi d’arma da fuoco.
Quel fervore di vita si era adesso trasformato in sdegno e disprezzo.
Sdraiata sul letto, intontita dal vociare delle donne nella stanza, Juma si rese conto che quel parto e la sua morte erano una cosa sola. Non riusciva a spiegarsi quella figlia. Aveva seguito con scrupolo ogni raccomandazione delle donne del clan: per ingraziarsi gli Spiriti del lago aveva evitato litigi e maldicenze. Si era astenuta dai rapporti sessuali col marito durante gli ultimi mesi di gravidanza; aveva evitato di trasportare l’acqua dal fiume per scongiurare il pericolo che suo figlio nascesse con l’acqua nella testa. E sapeva di essere stata fedele a Sefu.
La piccola s’agitò e pianse. Se la madre non l’avesse vista uscire dal suo ventre, con i suoi occhi, l’avrebbe creduta figlia di un’altra donna, di un altro clan.
Prese la neonata con le due mani e la porse a braccia unite alla levatrice per farla calmare. L’anziana la rifiutò con un cenno del capo. Juma volle tapparle subito la bocca, annientarle la voce e, se gli Spiriti l’avessero desiderato, anche il respiro. In un gesto di stizza le premette al viso l’estremità del panno nel quale era avvolta. Il senso materno fu però più forte di lei e la strappò di prepotenza dalle mani della follia, addomesticandola alla legge della natura. Forzò lo sguardo alla sua destra, avvicinò la figlia al seno sinistro e la sentì succhiare con forza. Con la coda dell’occhio scrutava la creatura attaccata al capezzolo. Vide il contrasto fra la pelle candida della bambina e quella scura della sua mammella. È successo di nuovo, pensò. Ho partorito un figlio morto. Se vive, mio marito mi lascerà.
Le voci s’intrecciavano e si scavalcavano, risuonando nell’angusto spazio della capanna come gracchi di corvi affamati.
«Le verranno gli occhi rossi come il demonio.» «È uno zeruzeru1! Ha poteri magici.» «È contagiosa. Porterà maleficio e sciagura nella comunità.» «Dacci ascolto prima che sia troppo tardi. Abbandonala nella foresta.» 
Staccò la figlia dal seno e la poggiò a terra, sopra un groviglio di stracci, nell’angolo della stanza più lontano dal letto. Poi ricadde sulla stuoia, stremata dalla fatica e dal dolore. Fissò il vuoto davanti a sé con un’espressione come di stupore, poi,finalmente, scoppiò in un pianto convulso, stringendo le lenzuola nelle mani a pugno. Quell’angolo della stanza, il più distante dal suo giaciglio, per lei significava foresta. Le donne le si strinsero attorno in cerchio, e una le afferrò i pugni, mormorandole parole di conforto. 
Nkamba era rimasta immobile a osservare. Da quando aveva aiutato a estrarre con le sue mani la nipote dal grembo della nuora, si era chiusa nel silenzio. Pian piano i commenti delle donne si erano insinuati nel suo cuore come un veleno, risvegliando il ricordo di quello che le era accaduto decine di stagioni della pioggia addietro. La vista le si oscurò, perse l’equilibrio e cadde appoggiandosi a uno sgabello.

Due donne si accorsero del malore e si affrettarono ad aiutarla, facendole vento con un lembo del vestito. Nkamba si riprese con prontezza, si alzò e si affrettò a raggiungere la nipote. La fissò qualche istante, poi si chinò, la prese in braccio e se la strinse al petto. Si disse che a quella bambina sarebbe successo l’esatto contrario di ciò che suggerivano quelle donne. Era sicura di poter far cambiare idea al figlio, sebbene l’avesse delusa per essere sfuggito alle responsabilità di padre.

Sefu non era ancora nato quando era successo ciò che le aveva cambiato la vita per sempre, era all’oscuro del suo segreto. A quel pensiero accostò le mani al ventre, provò vergogna, e subito dopo un’immensa forza. Quella necessaria per domandare al figlio grazia per la bambina; o, meglio, per convincerlo a chiederla alle bestie. Con la piccola stretta al petto uscì dalla capanna, sotto lo sguardo attonito delle donne; l’uomo stava parlando con i membri del clan. Per nulla intimorita l’anziana si portò alle spalle del figlio e gli afferrò un braccio.

«Voltati Sefu, sono tua madre.»
L’uomo si girò di scatto, imbarazzato da tanta intraprendenza.
«Concedile un’ultima possibilità» disse l’anziana con voce ferma. «Se sei l’uomo che hai dimostrato d’essere nel corso degli anni, il mio primogenito, figlio del grande uomo che fu Kheri, non abbandonare questa creatura nella foresta.»
Sefu taceva, fissando gli occhi di sua madre.
«Fai come i nostri vicini Masai» continuò lei, sostenendo lo sguardo dell’uomo. «Domani, al levarsi del sole, metterò la piccola a terra di fronte al recinto della mandria. Lascia che le bestie siano artefici del suo destino: se, all’alba, uscendo, la calpesteranno a morte, significherà che doveva finire così. Se invece vivrà, la crescerò io, Nkamba.»
Sefu distolse lo sguardo, lo lasciò vagare verso le cime degli alberi e scendere sulla folla riunita davanti a casa. Infine guardò ancora sua madre.
«Questo spirito malvagio non può essere mia figlia.» Le voltò le spalle e riprese la conversazione con gli anziani del clan. «Invece sì.» La madre si portò di fronte a lui e lo obbligò a guardarla. «Ancor prima d’essere tua figlia, è figlia di Dio e degli Spiriti del lago. Ogni bambino lo è.» La nonna dubitava della tradizione Masai di lasciar decidere la sorte di un neonato, nel dubbio della paternità, al bestiame. Come altri della tribù, credeva agli Spiriti del lago, ma anche alle parole di padre Andrew, che alla messa della domenica raccontava di un Dio che amava tutti i viventi. La tradizione Masai rappresentava in quel momento, però, l’unica alternativa alla morte nella foresta per la nipote. Il solo appiglio alla vita per una bambina lasciata, da un Padreterno distratto, sulla punta di una palma al sole equatoriale, invece che su quella d’un abete all’oscurità sconfinata.
«Devo pensarci» concluse Sefu.

Cristiano Gentili

Dedica dell'autore

Cara Maestra,
C'é una forza motrice più forte del vapore, dell'elettricità e dell'energia atomica: la forza di volontà. Credo nelle parole di Einstein e le metto in pratica tutti i giorni... Però oggi non mi interroghi, per favore!





PIACERE, IO SONO GAUSS





Se a scuola non avessero cominciato a stressarci con la faccenda dell’albero genealogico, questa storia non sarebbe nemmeno cominciata.

Invece eccomi qui, seduto davanti all’ufficio della direttrice didattica signora Pani, nell’attesa che la mamma finisca di levarmi dai pasticci.
Mi chiamo Gauss, ho dieci anni (undici ad agosto, infatti sono del segno del Leone) e la mia caratteristica principale è che dico sempre la verità. È il mio marchio di fabbrica, il mio vessillo e -secondo mamma - il mio peggior difetto. Un po’ di tempo fa le ho sentito confidare alla nonna che teme sia una specie di tic nervoso perché non c’è verso di farmi smettere. Ma la nonna le ha sventolato una mano aperta sotto il naso, come se stesse scacciando una mosca.
<<Stupidaggini!>> ha detto. Ed è tornata alla sua rivista di giardinaggio.
Siccome non sono tutti intelligenti come lei, per colpa di questo mio amore per la verità sono finito più volte nei pasticci e una dall’assistente sociale anche se, in quel caso, più che “un pasticcio” è stato un dramma di proporzioni galattiche.
Ricordo ancora mia madre giustificare a una donna bionda, grassa e con aloni di sudore grandi come fette di prosciutto sotto le ascelle, il perché avessi raccontato alla maestra dell’asilo che la nonna qualche volta mi chiudeva dentro lo sgabuzzino delle scope per ubriacarsi in santa pace mentre mia sorella di dodici anni mi costringeva a baciarla con la lingua.
Non capivo come mai avessero tirato fuori qualcosa che riguardava la mancanza di una figura maschile. Non dico che in casa un altro maschio non mi piacerebbe, figuriamoci. Però in quel caso che c’entrava? Personalmente, credo fosse molto più corretta la mia spiegazione sul perché avessi detto quelle cose alla maestra Wanda. E cioè che la nonna mi chiudeva nello sgabuzzino delle scope perché aveva voglia di farsi una bevuta in santa pace e che cinque anni fa io ero l’unico maschio a disposizione con cui Leonora potesse esercitarsi prima di baciare un ragazzo tutto suo.

Leonora è mia sorella. Già il fatto che si chiami così, fa giustamente pensare che le manchi qualcosa. Qualcosa più di una lettera, intendo.
Per quel che ne so, suo padre l’ha riconosciuta contro voglia perciò forse ha dimenticato apposta una E fuori dall’anagrafe. Eleonora doveva sembrargli un nome troppo bello.
O magari -chi lo sa?- ci sono anche degli Uigi, Mmacolate, Lessandri che girano per il mondo senza darsi pace, chiedendosi dove siano finite tutte quelle L, quelle I e quelle A di cui sono stati mutilati alla nascita.
Detto questo: io non ho idea di chi sia mio padre, figuriamoci se conosco quello di Leonora. Ma vivendo con lei tra i piedi tutti i santi giorni, non posso biasimarlo se si è trasferito in Germania e non ne ha più voluto sapere. Quella ragazza, se non si fosse ancora capito, è un gatto a nove code sulle palle. Un attacco di diarrea logorante. La peggior sorella maggiore che un fratello minore possa desiderare. Leonora di cognome fa Sandretti.
(...)
Mia madre, anche se ha una figlia diciassettenne e me, ha solo trentasei anni ed è ancora piuttosto carina. Per non star lì a dare tante spiegazioni (cosa che detesta) si fa chiamare Matilde ma in realtà si chiama Genna. Non Gemma, come scrivono quelli di Elle, quando le spediscono la rivista. E non Genna di cognome, anche se sarebbe stato preferibile dal momento che invece fa Bassi, come me.
Inutile dire che essere alto un metro e trenta e chiamarsi Bassi non è un bel biglietto da visita per cominciare le scuole medie. Non è bello nemmeno se fai la quinta elementare, a dirla tutta. Infatti ci penso di continuo. Anche adesso: me ne sto qui, seduto sulla panca di legno accanto alla porta della direttrice didattica signora Pani, chiedendomi come mai i miei piedi sfiorino appena il pavimento. Ho il sospetto di avere i femori corti, anche se nessuno me l’ha mai confermato. L’unica speranza sarebbe crescere di botto venti o trenta centimetri quest’estate. Può succedere. Non si sa mai.
Sempre che riesca ad uscire vivo da questa situazione perché non è che butti molto bene e purtroppo per me non c’è nemmeno la nonna qui a difendermi.
A proposito: nonna Olimpia -quella dello sgabuzzino- è la mia parente preferita. Ha adottato la mamma a quasi sessant’anni (lei ne aveva dodici). Quelli dell’istituto gliel’hanno lasciata anche se era vedova e di una certa età, perché tanto una bambina così grande non se la sarebbe più presa nessuno.

Silvia Tesio

 Dedica dell' autrice

Alla maestra, che come mamma e marito ha sempre la colpa di tutto!!! Scherzosamente, Silvia Tesio







VENGA PURE LA FINE




1.



Bosnia Erzegovina, 1995

Rumori, dal fitto della boscaglia. Samira volge di scatto gli occhi al suo compagno, nel suo sguardo c’è una richiesta di aiuto. Lei e Sefer sono le staffette avanzate della banda di irregolari che ha osato sfidare il temibile esercito serbo. Una follia, l’aveva detto dal primo momento. Trenta soldati improvvisati, male armati, contro un intero reggimento attestato a difesa. Un attacco suicida. Li hanno fatti a pezzi, sono rimasti in sette. Due di loro sono feriti, Ismet non arriverà alla notte. La sera allunga la sua ombra nel cielo e col buio aumenterà la paura. Quella che già adesso le attanaglia la gola. 
Samira sente il pericolo nel fruscio sottile delle foglie. Sarebbe bello che a muoverle fosse il vento del Nord, anche se tante volte lo ha maledetto, quando all’alba usciva di casa e la sua sferza impetuosa le gelava il sangue. Sarebbe bello se tornasse quel tempo, quando la vita era lavoro duro, la mattina a scuola e il pomeriggio ad aiutare la mamma nelle faccende di casa. 
Ma Samira una casa non ce l’ha più. L’ha barattata con un fucile e due scarponi incrostati di fango, per un uomo che l’ha trascinata in una lotta disperata, a perseguire un obiettivo privo di senso. Non ci saranno vincitori, alla fine di quel dolore avranno perso tutti. I pochi che scamperanno alla mitraglia, ai cecchini, alle mine disseminate nei campi, riceveranno in premio un paese dilaniato, dove nulla sarà più come prima. Croati, serbi, bosniaci musulmani, quando il massacro si sarà fermato resteranno nemici. La guerra non finirà nei pensieri della gente, nelle anime ferite. Prima erano tutti mescolati: in seno ai villaggi, alle famiglie formate senza badare troppo alle origini. Era il komšiluk, il codice non scritto della reciproca tolleranza. Dopo, sarà tutto un guardarsi con rancore. «Il tuo esercito bastardo ha ucciso mia madre». «Brutta puttana, cosa vuoi? Sono stati i tuoi a incominciare». Saranno questi i discorsi fra chi si era giurato eterno amore, se qualcuno avrà ancora voglia di parlare. 

Ma Samira non vedrà tutto questo, perché nel bosco avanza la milizia del colonnello Dragojevic, il macellaio venuto da Gračanica. L’uomo che conduce la pulizia etnica in quell’angolo di Bosnia. Non avrebbero dovuto affrontarlo, sono condannati, nessuno di loro sfuggirà a quegli uomini addestrati a scovare i nemici nel cuore della foresta. Li sente più vicini, adesso, tanto da fiutarne l’odore. Per Sefer è lo stesso, glielo legge negli occhi. 
«Cosa facciamo?» chiede.

«Non parlare, potrebbero sentirci». 

Il suo compagno ha ragione. Hanno bisbigliato, ma nel silenzio di un bosco fa rumore anche il respiro. Samira però non sa tacere. 

«Non vedo più gli altri. Forse dovremmo…».
«Tornare indietro? Fallo tu se vuoi. Io non muovo più un passo».

Sefer scuote la testa, è fuori di sé. Nello scontro appena combattuto è caduto l’ultimo dei suoi fratelli. Il grosso della famiglia si era dissolto nell’attacco al villaggio, ingoiato da una fossa comune. Samira non riuscirà a calmarlo e lo sa, ma deve provarci. 
«Cosa vuoi fare, aspettarli? Pensi che quell’albero ti riparerà dai loro proiettili?». 
Ha alzato appena il tono di voce. Basta quel tanto e il residuo equilibrio del suo compagno va a perdersi chissà dove. Il ragazzo cresciuto in una storia più grande di lui si lancia nel fitto della boscaglia senza pensare a niente. Prima della guerra tagliava la legna, come suo padre e suo nonno. Era in gamba, con un colpo di scure buttava giù un piccolo fusto. La sua abilità non gli servirà a strappare alla morte un solo minuto. 
Samira lo vede sparire fra gli alberi, una corsa disperata che porterà solo a farli scoprire, ma tanto la loro fuga non sarebbe durata. Anche senza sentire i colpi lei sa che il suo Sefer, che in una sera lontana le rubò il primo bacio e sparì per lasciare il posto a un nuovo amore, se n’è andato per sempre. È in un altrove sconosciuto, dove forse non ci sono i fucili. Magari avrà raggiunto i suoi genitori, le sorelle di cui era così geloso. Che la sua anima trovi pace, pensa la donna mentre l’incubo della guerra si avvicina di nuovo. È tanfo di sudore, odore di polvere da sparo, è clangore di metallo. 
«Getta le armi, sei circondata!».
D’istinto compie il gesto contrario. Arma l’otturatore e si accuccia, pronta ad aprire il fuoco per l’ultima volta. La voce dell’uomo si fa più dura. 
«Non ci provare. Sei sola, i tuoi compagni li abbiamo già presi». 
I soliti espedienti. È una gara di nervi, sanno che è stanca e disperata. Stanno bluffando per metterle paura. Oppure no. 
«Avanti, Samira, vieni fuori. È sciocco morire così». 
Non è un trucco. L’hanno chiamata per nome, segno che qualcuno ha parlato. È vero, gli altri sono stati catturati, hanno già iniziato a torturarli. Toccherà pure a lei e non ha senso arrendersi, meglio morire subito con un’arma in mano. Ma ventinove anni di vita gridano altro. Le urlano di aggrapparsi a una labile illusione di sopravvivenza. Alla sua età si spera sempre che ci sia un domani, che sia migliore. 
Samira getta il fucile. Forse pensa ai bambini che ha affidato ai nonni prima di abbracciare la guerriglia, forse vuol solo vivere un attimo in più. Il colonnello Dragojevic sorride, un ghigno beffardo che mette i brividi. 
«Sei bella, donna musulmana. Me l’avevano detto, ma non credevo lo fossi fino a questo punto. Oggi è stata una buona giornata». 
La spingono a piedi lungo il sentiero nella boscaglia, poi a forza su una camionetta. Un percorso a ritroso che la riporta all’accampamento serbo preso d’assalto dal suo gruppo. È come le hanno detto, i suoi compagni sono tutti prigionieri. Mancano Ismet e Sefer, non è difficile capire perché. 
L’ufficiale sparisce dietro la tenda più grande, dev’essere il suo quartier generale. Ora a occuparsi di lei è un giovane senza insegne sulla divisa. È il capitano Paskaljevic, il braccio destro del colonnello, ma non spreca il fiato a presentarsi. Un istante più tardi Samira si ritrova nel gruppo dei suoi. 
«Ti hanno fatto del male?». La voce del compagno è impastata di terrore. Era il leader di quel manipolo improvvisato, ora è solo un giovane uomo tremante. Forse avrebbe diritto a un’altra possibilità, ma il destino se ne frega e gli lascia al più qualche ora. Anche lui ha figli, sta pensando a loro. La moglie è morta a Sarajevo nel massacro del mercato, era andata in città a trovare i genitori. Doveva restarci una settimana, poi è iniziato l’assedio ed è rimasta intrappolata in quella immensa gabbia di fuoco e metallo, che alla fine l’ha uccisa.
Samira non risponde alla domanda. Sta osservando l’ufficiale serbo che, fermo a qualche metro, impartisce ordini ai suoi uomini con un’espressione feroce sul volto.

«Tramano qualcosa» dice al suo capo, che si volta a fissarla. 

Nell’occhiata che si scambiano ci sono impotenza, dolore, inutile affetto. Poi qualcuno li afferra e li trascina in una radura vicina, verso un poligono di tiro improvvisato. Sullo sfondo non ci sono sagome e quello non è certo il momento di addestrarsi. È fin troppo chiaro, il bersaglio saranno loro. 

Dalla fila dei prigionieri si leva un bisbigliare sommesso. Samira non partecipa, ha la gola secca. Si concentra sui figli, vuol morire con quella immagine impressa nel cuore. Pensando a loro nell’ultimo istante, s’illude, potrà trovarli più facilmente quando tutti saranno dall’altra parte. Ammesso che sia vero, che l’aldilà non sia un abbaglio per imam e sacerdoti. Un bel pretesto per combattere, la religione, funziona da secoli. Scannarsi senza tregua in nome di una fede. Pensa che beffa se Dio si è stancato di governare un mondo tanto assurdo e si è trasferito altrove. 
Dalle file dei serbi risate di scherno. «Preparatevi a morire» dice una voce dal mucchio. Il capitano Paskaljevic lascia fare per un po’. Ascolta i commenti dei suoi con un mezzo sorriso sulle labbra, poi decide che ne hanno avuto abbastanza. Si mette dietro la fila e, battendo un frustino, scandisce comandi secchi a cui i soldati rispondono con precisione. È la fine, ancora qualche secondo e Samira sarà cibo per vermi. Terra alla terra, chissà se i carnefici si prenderanno la briga di seppellirli. 
«Plotone, caricate!».
La ragazza sente tirare indietro gli otturatori, riempirsi le canne dei fucili. È l’ultimo atto, quei proiettili usciranno per conficcarsi nei loro corpi e poi sarà notte per sempre. Il soldato che ha di fronte la guarda con aria triste, le mani contratte sulla sua arma. È giovane, è la prima volta che partecipa a un’esecuzione. Neanche per lui quello sarà un bel giorno. 
Fra le labbra una muta preghiera. Dio non esiste, non è possibile che stia lì a osservare un simile scempio senza far nulla, eppure bisogna implorarlo. Se si è addormentato un urlo profondo, dall’anima, potrebbe scuoterlo dal suo torpore. Ma anche l’anima tace. In quel giorno che sa di pioggia e di morte, a gridare sono solo i carnefici. 

«Mirate!». 

I soldati sollevano i Kalashnikov ad altezza d’uomo. Dalla fila dei condannati un fruscio, uno dei compagni si sta pisciando addosso. Samira evita di guardarlo per risparmiargli un vano imbarazzo. La morte in faccia è una brutta bestia, difficile spiegarlo a chi non l’ha provato. 

Dai suoi ricordi della scuola riaffiora un dettaglio che credeva rimosso. Tolstoj o Dostoevskij, chi dei due affrontò il plotone di esecuzione e si salvò per un estremo atto di clemenza? Si sforza di rammentarlo. Era Dostoevskij, adesso ne è sicura, e intanto i proiettili non arrivano. Quei bastardi lo fanno apposta, la mandano alle lunghe per godersi la loro agonia. 
Invece no, la ragione è diversa. Dalla tenda si è affacciato il macellaio di Gračanica. L’attesa serviva a farlo assistere all’apice della sua vittoria. La fucilazione di cinque inermi, bella gloria. Ma chi crede che le guerre si vincano col valore è uno stolto, o uno che non le ha mai viste. 
Gli occhi di Samira vanno dal colonnello Dragojevic all’ufficiale che dirige il plotone d’esecuzione. Fra i due uomini passa un’occhiata, poi il capitano solleva il frustino.
«Fuoco!». 
Chiude gli occhi. Come sarà, passare dalla luce al buio? Forse se non guarda non sentirà nulla. Chissà se gli altri stanno pensando la stessa cosa. Non li vede, può solo sentirli tremare, ma perché quei maledetti colpi non partono? Vorrebbe stare nel plotone per premere subito il grilletto, perché lo strazio abbia fine.
Poi finalmente capisce. Invece degli spari alle sue orecchie arriva una risata sguaiata. Ne aveva sentito parlare, non credeva lo facessero davvero: le finte esecuzioni, una tortura disumana. Gli otturatori scattano a vuoto. Samira e i suoi compagni sono ancora vivi, eppure non appaiono sollevati. Le armi dei serbi si sono abbassate, ma loro restano in balìa dell’odio nemico. 
Si guardano, uno del gruppo sembra invecchiato di colpo. I suoi capelli si sono ingrigiti in pochi istanti, anche a vederlo non si riesce a crederlo. Il colonnello Dragojevic si avvicina. Aspetta, per parlare, di avere gli occhi di tutti fissi nei suoi, che girano da un prigioniero all’altro come il tamburo di un revolver nella roulette russa. 
«Vi starete chiedendo perché non vi abbiamo uccisi. Per voi abbiamo altri progetti, prima di andare all’inferno risponderete a molte domande. Oggi stesso sarete trasferiti al campo di concentramento di Omarska. Da quelle parti, dovete sapere, si ottengono risposte molto sincere». 
Dai ranghi dei suoi soldati si solleva un nuovo brusio di scherno. Dragojevic passa in rassegna gli sconfitti. Si ferma davanti a Samira, le sfiora i capelli.
«Sei bella, te l’ho detto». 
Lei ha le mani legate. Vorrebbe colpirlo, può solo sputargli in pieno viso e non si lascia sfuggire l’occasione. Fra i suoi compagni scorre un brivido. Il colonnello estrae un fazzoletto dal taschino con incredibile lentezza, si asciuga il volto. Guarda la donna, poi con un gesto chiama a sé l’uomo dal frustino. 
«Quella puledra ha bisogno di essere domata. Riservale il solito trattamento, ma senza sciuparla troppo. Dopo cena la voglio nella mia tenda».
Il capitano Paskaljevic le si para davanti. Senza dire una parola la afferra per i capelli e la scaraventa per terra in mezzo a un gruppo di soldati. Lei prova a rialzarsi, una pedata la rispedisce al tappeto. È un pestaggio scientifico, stanno attenti a non lasciarle segni. Dopo i primi colpi Samira si abbandona al dolore, sperando di perdere i sensi. E finalmente la terra comincia a girare.
Si risveglia nella penombra di una tenda. È sola, il macellaio sarà intento a pianificare i prossimi massacri o si starà imbottendo di birra assieme alle sue belve. La donna non può muoversi, è bloccata. Sente dolore dappertutto ma non perde sangue, se ha ferite devono avergliele pulite. Non sa quanto tempo sia passato. Poi lui arriva. Arriva col suo tanfo di alcol, la sua voce impastata. 
«Dov’è la mia cagna?». La cerca con lo sguardo, le sue mani impazienti slacciano già i pantaloni. «Ora ti do una bella ripassata». 
Non può neppure urlare, le hanno messo un bavaglio. Non ha nessuna possibilità di fermarlo. Lo sente entrare in sé e giura che, se mai ne uscirà viva, gli farà scontare ogni singolo assalto, ogni singolo gemito. 
Lui si muove da ubriaco. Nelle sue condizioni non prova un vero piacere sessuale, è il delirio di onnipotenza a portarlo a quell’urlo bestiale. Dopo l’orgasmo la sua furia si placa di colpo. Le crolla addosso, piombando all’istante in un sonno profondo. Riapre gli occhi molte ore più tardi
«Come va?». Le si siede accanto. Adesso ha voglia di parlare, come se quell’amplesso strappato a forza in qualche modo li avesse uniti. «Credi che io sia una bestia? Il macellaio, non è così che mi chiamate?». Fa una pausa. «Ti spiego chi sono».
È una storia crudele di miseria e violenza, che lei non ascolta. Sembra parlare a se stesso mentre le sfila il bavaglio perché possa rispondergli. 
«Hai capito adesso, puttana bosniaca?». Alterna la rabbia a una feroce disperazione che assomiglia al rimorso. «Scusami, non volevo offenderti, forse un giorno sarai la madre di mio figlio». Per un attimo sembra crederci sul serio, le tocca la pancia. «Sì, avrò una famiglia. Non andrai a Omarska con gli altri, non lascerò che ti uccidano». Sorride. «Se nasce un maschio lo chiamerò Radovan. È il nome di mio padre, un grande combattente». Il suo delirio tocca il culmine. «Nostro figlio sarà fiero del suo nome». 
Samira è sconvolta. Si guardano per un lungo istante, poi lei ha un lampo negli occhi. «Ho due figli e mi bastano. Se mi hai messa incinta lo ammazzo con le mie mani, il tuo bastardo». 
Lui muta di nuovo espressione. Senza dire una parola estrae la sua Zastava semiautomatica dalla fondina e le spara in testa. Un colpo solo: lo ha fatto altre volte, non ne servono di più. Un fiotto di sangue schizza dalla tempia colpita. L’ufficiale fa in tempo a scansarsi per non esserne raggiunto, osserva il liquido rosso colare sul pavimento con disgustata freddezza, evitando con lo sguardo quel corpo senza vita. Si affaccia sulla porta. 
«Qualcuno venga a pulire questo schifo» urla, poi raggiunge la scrivania e riprende a consultare le sue carte.




Dedica per la Maestra

Ci sono libri che si scrivono con la vita. “Venga pure la fine” è uno di quelli, è nato mentre i miei anfibi si sporcavano di polvere a Sarajevo e la mia anima di dolore. Neppure sognavo, allora, di diventare scrittore.
Lo dedico alla Maestra, che vive e scrive giorni e pagine, e ai suoi Allievi, che amano le storie come se fossero il lievito stesso dell’umana esistenza. Non credo si sbaglino di tanto.   


EVELINA E LE FATE




Evelina cercava la pace e il silenzio.
Per quello si svegliava prima di tutti. Prima del padre che andava presto nei campi, prima della madre e della nonna che facevano le faccende, prima dei fratelli più grandi che andavano a scuola e di quelli più piccoli che invece dormivano fino a tardi.
Certe mattine si svegliava persino prima del gallo.
Le piaceva stare un po’ alla finestra della camera e guardare Candelara.
Quella mattina si vedevano solo i rami nudi del noce che spuntavano appena in mezzo al bianco. La neve era arrivata già da un po’ ma quella notte doveva averne fatta così tanta che Cristo non ne poteva mandare giù più.
C’era una nuova candelora di ghiaccio che scendeva dalle tegole. Evelina seguì i saltelli di un pettirosso che cercava da beccare. Attaccò la faccia al vetro e guardò a sinistra, oltre gli olmi del viale che portava verso casa. La punta del campanile della Pieve di Santo Stefano e, in cima, la croce scura, sembravano anime sperdute in quella montagna di lana bianca.
La neve aveva coperto le case, i pollai, gran parte della chiesa, il sagrato con le belle pietre chiare, dello stesso colore delle mura che iniziavano poco più avanti e circondavano il paese come una collana. Il casolare dove Evelina viveva con la famiglia stava appena fuori da quel cerchio e se certe volte si dispiaceva che casa sua, la casa dei Badioli e le poche altre cascine lì attorno, fossero rimaste fuori da quell’abbraccio di pietra, altre volte era contenta di stare nella parte più alta, vicino alla Pieve con la campana che ti faceva capire sempre l’ora, e che era la cosa più bella di tutta Candelara insieme al castello che stava giù nel borgo.
Quella mattina le case verso il paese erano sparite nel bianco.
Poi, in un punto a metà dello stradone, le sembrò che la neve si muovesse.
Evelina si sfregò gli occhi per togliere la biccica, ma non servì a niente, il biancore continuava a gonfiarsi. Andò al catino, ruppe lo strato di ghiaccio che copriva l’acqua e vi immerse la faccia. Il gelo le entrò nella carne e le mozzò il respiro. 
Si tirò su con le orecchie che fischiavano, ma fu sicura di sentire delle grida venire da fuori, e dicevano Evelina, Evelina. Aprì piano la finestra per non svegliare le sorelle e cacciò fuori la testa.
Il cielo, dietro il casolare dei Badioli, aveva cominciato a colorarsi di rosa e tutta la campagna aveva preso il colore dello zucchero filato.
Dalla neve si levavano degli sbuffi come fa la farina quando si impasta il pane. Ci doveva essere qualcuno là sotto. Magari una volpe che sgrottava da un pollaio all’altro in cerca di galline.
Invece vide spuntare una palla di stracci, che fece mezzo giro su se stessa e sparì di nuovo.
Evelina pensò di averci visto male e che la palla fosse piuttosto una lepre o un coniglio selvatico che cercava la sua tana.
Poi, dalla terra sbucò una ruota. E per un po’ fu tutto un venir fuori di cose e di pezzi.
Spuntò una mano, per seconda una scarpa, più avanti anche il manubrio di una bicicletta e, quando il tramestio nella neve oltrepassò il cancello del vialetto che portava verso casa, vide che la palla era una testa avvolta nelle pezze e con un cappello in cima…
Le venne il singhiozzo. Cominciò con dei piccoli scoppi dentro la pancia, che divennero scossoni in mezzo al petto e stranguglioni in gola. Si chiuse la bocca con la mano per ricacciarli giù ma quelli spingevano così forte che sembrava volessero uscirle dalla schiena.
Gli sbuffi, nel frattempo, si erano fatti più vicini e dalla neve uscivano voci, lamenti, strida.
La nonna la chiamava Cassaccia, perché aveva paura anche della sua  ombra, ma Evelina decise di andare fuori lo stesso a vedere se là, avevano bisogno di aiuto. Uscì dalla camera e scese lentamente la scala appoggiando le mani alla parete perché gli zocchi che aveva ai piedi le stavano grandi e si sfilavano.
Le grida erano così forti che le sentiva anche attraverso il portone. Animali, uomini o diavoli, voleva sapere cos’era quel rapasceto. Aprì la porta e si buttò a faccia in giù nel ghiaccio.
Davanti a lei luccicava lo scassato che il padre e il fratello avevano scavato il giorno prima. Nella notte era caduta altra neve e aveva coperto gran parte della galleria e fortuna che era facile da scavare perché i lati e il pavimento dello scassato erano lisci come specchi e gli zocchi ci scivolavano sopra che era una bellezza. Il rumore del legno rimbalzava da un punto all’altro come succedeva nella Cupa quando lei e i fratelli giocavano a far rimbalzare le parole. Cercò allora di fare meno baccano possibile per la paura che i botti incrinassero le lastre di ghiaccio. E c’era anche il singhiozzo, che la faceva muovere a scatti, mandandola a sbattere di qua e di là.
Provò a trattenere il fiato, ma gli scossoni non passavano.  Prese una manciata di neve e se la mise in bocca. Il sapore di grasso e polvere le scese giù per la gola facendola rabbrividire, ma il singhiozzo era sempre lì. Allora chiuse gli occhi e recitò a memoria.
Singhiozz, singhiozz la luna int’el pozz, la luna s’el fich, el singhiozz l’è partit.
andava a tempo con il mento su e giù per seguire la luna che prima si era specchiata nel pozzo e ora stava alta nel cielo sopra il fico.
Mentre diceva la sua formula magica una cosa le afferrò un braccio.
Aprì gli occhi, la zampa di un animale enorme la stringeva coi suoi lunghi artigli. La paura le gelò la schiena e le mandò via il singhiozzo in un lampo. Lo sperone di un enorme tacchino, il più grande che potesse immaginare, le stava piantato nella carne. Tirò il braccio e gli artigli si aprirono disegnando mulinelli nell’aria. Gli unghioni fecero una crepa nella neve e dal buco si affacciò un occhio, a guardarla fisso. Poi l’occhio sparì e venne una bocca enorme. Faceva delle smorfie schifose e dalla lingua colavano fili di bava. La bocca soffiava e aveva denti bianchi e lunghi come quelli delle volpi.
«Sta’ indria!» disse il padre con la vanga puntata verso il mucchio di neve che la separava dalla bestia. Alle sue spalle c’erano anche Piero e la Carla, in mutande e canottiera, e tremavano come conigli appena nati. Evelina si scansò ed il padre affondò la vanga nella neve. La parete bianca si sfarinò. Si affacciò una testa rossa, grande, tutta fasciata di stracci. Dalla bocca buttava nuvole di fumo e rantolava come i cani quando gli va di traverso un osso.
Evelina si nascose dietro le gambe dure del padre.
La testa di stracci si girò e disse: «Passiamo uno per volta. Prima i bambini»
Aveva una voce che rimbombava forte lungo le pareti di ghiaccio.
Il padre si avvicinò al buco e allungò le mani. Il primo che venne fuori fu un fagotto.
Il padre lo prese in braccio e lo diede alla Carla «Bèda maché»
Il fratello intanto aiutava il padre a far passare i fagotti da una parte all’altra del mucchio di neve.
Si muovevano senza bisogno di piedi, come faceva la Nera.
Per ultima passò la testa che si era affacciata all’inizio. Si mise in bocca la zampa e strappò coi denti i panni che la coprivano. Venne fuori una mano, senza artigli, che porse al padre. «Siete voi Aldo Cecchini?»
Il padre gliela strinse. «Sì»
Erano arrivati gli sfollati.


Simona Baldelli
Finalista nel 2012 della  XXV Edizione  Premio Calvino



 Dedica dell' Autrice


Dedicato alle Maestre, che sanno salvare sfollati, bambini, uomini, donne, parole e pensieri, dalla neve e dal gelo dell’ignoranza e dalla stupidità.


Anna Wood e Simona Baldelli
Salone del libro 2013


IL GIORNO CHE DIVENTAMMO UMANI



Perturbazioni

Aveva seguito l'evoluzione della perturbazione per tutta la settimana, navigando sui siti di previsioni del tempo di mezzo mondo. Il fronte di aria gelida si era formato nella pianura siberiana, e stava scendendo verso l'Italia dopo aver attraversato mezza Europa; aveva scompigliato campi di grano, tetti di case, piantagioni d’uva. Lei, la sera, con il suo pc, dall'alto dei satelliti, guardava le isobare che si spostavano, che si allargavano e poi si ritraevano, simili al corpo di una medusa nell'acqua; osservava il movimento lento e irreversibile di quella piccola minaccia.
La tempesta arrivò di notte, come un gigantesco treno scagliato contro la città. Nel buio, sentì i passi della piccola che si era svegliata – forse per i tuoni – e che, piagnucolando, si avvicinava alla camera da letto, in cerca di un rifugio. Lei e suo marito la fecero salire sul lettone e la misero in mezzo tra loro. Per qualche secondo le tenne stretta la manina; poi, mentre il vento siberiano urlava fuori dalle finestre, sentì il suo respiro farsi quieto, regolare. Il tepore di quel corpicino stretto a lei la fece scivolare in un sonno dolce e confuso.
Quando suonò la sveglia, la piccola le era ancora accanto, con la bocca spalancata. Suo marito, già in piedi, stava alzando le tapparelle: fuori, il cielo era ricoperto di nuvole. Dal letto, lei intravedeva l'albero che cresceva davanti alla camera: sembrava arruffato, qualche ramo si era spezzato, ma era ancora in piedi. Si alzò anche lei, e, insieme, si affacciarono alla finestra, uno accanto all'altra: la strada era piena di foglie, carte di giornali, sacchetti; una pozzanghera larga due o tre metri lambiva il marciapiede davanti; la vicina di casa, con una giacca da uomo indossata sopra la vestaglia, stava gettando bottiglie di birre nel bidone del vetro, con un rumore assordante. Si girò verso la camera. La piccola non si era ancora svegliata.
Andò in cucina a preparare il caffè, mentre suo marito iniziava a svegliare il grande: sentì la voce affettuosa del padre, il borbottio lamentoso del figlio. Era il 15 maggio – un giorno del quale avrebbe fatto volentieri a meno.
Versò il caffè in due tazzine. Scaldò un po' di latte nel microonde e tirò fuori i biscotti dalla credenza. Erano quasi finiti; su un foglio che teneva attaccato al frigo, con una calamita che sua suocera aveva portato da Roma, segnò biscotti, sotto intimo e sassetti gatto. Si sedette e soffiò nella tazzina. Il vapore del caffè le inumidì la fronte. Poco dopo, arrivarono suo marito e il grande, che teneva un braccio davanti agli occhi per ripararsi dalla luce.

«Cosa vuoi mangiare?»

«Pasta» disse con voce un po' incerta. Si sedette anche lui a tavola, sorreggendo la testa con le mani.

Dopo aver sorriso, chiese al marito: «La piccola? Dorme ancora?»

«Si stava stiracchiando».

Fuori, il cielo iniziava a schiarirsi.


Paolo Zardi






Dedica dell'autore:

Alla cara Maestra,
sempre attenta a risvegliare la creatività dei suoi allievi, 
con affetto,
Paolo



CACCIATORI DI FRODO




E niente più pneumatici, niente smaltimento rifiuti, niente fiore all’occhiello dell’efficienza del florido Nordest, penso mentre percorro i binari della ferrovia. Tutto finito, chiuso, esploso, come una bomba atomica o una bolla di sapone che lascia ferite indelebili, solitudini fatte a pennello, penso mentre cammino sul binario morto. Ora dovrei forse contare i passi per dare il senso della mia efficienza, contano i passi quelli che hanno rabbia da vendere, penso, psicolabili e psicopazzi dei miei stivali, ma io no, non conto i passi, mentre percorro i binari della ferrovia, penso mentre percorro i binari della ferrovia, io mi porto al guinzaglio la mia nuvola, una manciata di metri cubi di acerbe espiazioni prese al guinzaglio e percorro i binari della ferrovia, dodici chilometri ho sentito dire, dodici chilometri suppergiù che devo percorrere per raggiungere la curva troppo stretta e dietro la curva trovare mia moglie sdraiata sui binari che aspetta che il treno venga a farle rotolare la testa giù dall’argine e nel fiume. Dodici chilometri, dalla casa cantoniera dove siamo andati a stare dopo che è successo tutto, dopo che è finito tutto, che si è smesso di smaltire gomma di pneumatici ai margini della città con pochissime infrazioni al senso di efficienza del nostro florido Nordest, dodici chilometri. Di un binario morto. Mi chiedo ancora ogni volta, penso mentre percorro i dodici chilo- metri del binario morto della ferrovia, se mia moglie, perché Eli- sa bene o male è ancora mia moglie, persino ora e persino qui, sul binario morto, Elisa è ancora mia moglie, porca puttana, mi chiedo ogni dannata volta che percorro questi dodici chilometri di binario morto, ogni mattina, se mia moglie che ogni mattina esce di casa prima dell’alba, con la camicia da notte bianca di prima dell’alba, e percorre nel buio con la camicia da notte bianca mossa dal vento nella notte prima dell’alba e si sdraia con la camicia da notte sul binario morto della ferrovia e aspetta che il treno le faccia rotolare la testa giù dall’argine e nel fiume, mi chiedo se lo sappia che il binario è un binario morto, uno degli scempi assurdi dell’Italia centralista di Roma, e porcodio, questo binario morto della ferrovia costruito dentro l’argine del fiume è come un grattacielo eretto sulle sabbie mobili da stronzi, mi chiedo se lo sappia mentre aspetta ogni mattina il treno che le butti giù la testa dall’argine e nel fiume, se un fremito la scuota, se pompi il cuore nella testa come un Hummer, se sbatta, se s’incazzi, o se stia zitto, sospeso sulla nuvola al guinzaglio di espiazioni troppo acerbe.
Non conto i passi, ci ho provato, perdo il conto, non sono pazzo, non lo so, ma passo sulle traversine attentamente come un pazzo sulle strisce pedonali, penso mentre percorro i dodici chilometri del binario morto della ferrovia, due ore di buon passo o poco più, e passo sulle traversine dei binari perché i sassi fanno male ai piedi, i sassi della massicciata così alta, nello scempio dell’Italia centralista di Roma del binario dentro l’argine del fiume, penso mentre vado a riprendere mia moglie, fatto con una massicciata così alta, contro le piene del fiume, per uno scempio centralista mafioso, che non ha senso, il fiume, il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio. Il Piave. Due fronti. Italiani, austriaci. Ti apposti tra i rami. Al primo movimento spara. Guerra di posizione. Lo vedi in faccia il nemico. Lo vedi in faccia il facciadimerda. Italiani e austriaci, penso mentre percorro i dodici chilometri del binario morto della ferrovia con la nuvola al guinzaglio, la nuvola di acerbe espiazioni al guinzaglio. Al primo movimento spara. Il nemico, uno, che va verso il fiume. Lo vedi in faccia il facciadimerda. Al primo movimento spara, e tu lo vedi in faccia il facciadimerda e spara. Forse va a prendere l’acqua, forse va a prendere l’acqua col secchio il facciadimerda dentro il mirino, nel centro del mirino, nell’incrocio delle rette nel mirino, il cranio spappolato del facciadimerda se solo premi il grilletto se solo premi quel cazzo di grilletto, penso mentre percorro i dodici chilometri del binario morto della ferrovia per andare a recuperare mia moglie sdraiata sul binario morto che aspetta che il treno faccia rotolare la sua testa giù dall’argine e nel fiume. A ogni piccolo movimento spara. Italiani e austriaci, fronte contro fronte. A ogni piccolo movimento spara, e la testa del facciadimerda dentro il mirino, all’incrocio esatto di ascisse e ordinate, nel punto del cervello che rotola giù dall’argine e nel fiume. Italiani e austriaci. Poi il facciadimerda che si toglie i vestiti, penso mentre percorro i dodici chilometri del binario morto, si toglie i vestiti il facciadimerda col cervello ancora sull’argine e sul collo, e si bagna nel fiume e il fiume è acido che scioglie, penso badando a mettere i piedi sulle traversine e non sui sassi della massicciata, e il facciadimerda si scioglie nel fiume come acido con una piccola nuvola di fumo, penso mentre percorro i dodici chilometri del binario morto della ferrovia. E il Piave mormorava calmo e placido al passaggio, e i soldati austriaci e italiani si alzano in piedi, migliaia e migliaia di soldati si alzano in piedi e camminano verso il fiume. Italiani e austriaci, fronte e fronte, in piedi, verso il fiume. E migliaia e migliaia di soldati, penso mentre cammino sulle traversine, camminano verso il fiume, l’esodo degli uomini minuti verso il fiume avvelenato, e si tolgono i vestiti gli uomini minuti, tutti gli uomini si tolgo- no i vestiti mentre camminano verso il fiume avvelenato, penso mentre cammino, e si bagnano nel fiume, uno dietro l’altro si bagnano nel fiume, uno dietro l’altro si sciolgono nel fiume e diventano una piccola nuvola di fumo, penso mentre porto la mia nuvola al guinzaglio, una piccola nuvola di fumo disciolta nell’acido, uno dietro l’altro, migliaia e migliaia di soldati, e lasciano una macchia color ruggine nel fiume, una macchia color ruggine che la corrente porta via, penso mentre cammino al colmo della massicciata.

Alessandro Cinquegrani
Finalista XXIII edizione Premio Calvino
Candidato al Premio Strega  2013.


Dedica alla Maestra

Per la maestra, da uno che non ha mai avuto un bel rapporto con maestri e 
professori, finché è diventato un professore universitario, uno che non ha mai 
avuto un bel rapporto col Nordest e ha scritto un romanzo radicato nel Nordest, 
uno che è un tipo ironico e tranquillo e ha scritto un romanzo rabbioso e 
incalzante, uno che racconta di personaggi che si macchiano di colpe terribili 
e immancabilmente li assolve… insomma: alla maestra di Svolgimento e ai suoi 
alunni da… un tipo coerente!


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