domenica 22 gennaio 2012

Tema: Oslo, catarratto e scirocco


Oslo non mi piace. Non che io ci sia mai stata. Ma non mi piace a priori. Non mi interessa. Troppo fredda. Troppo cara. E soprattutto troppo schematica: tetti spioventi, case tutte uguali, troppi giardini, troppo verde. A me il verde non piace, in genere dico. Troppa luce di giorno e troppo buio di notte. Almeno credo. Gli uomini. Tutti biondi con gli occhi azzurri, bianchi bianchi, cianotici, troppo alti, lavati. Degli stoccafissi appunto. E le donne? Tutte alte altissime, seni accennati, gambe lunghe quanto la A1 e quelle micro gonne indossate anche con meno 10. False, falsissime. Stoccafisse anche loro. Chissà se sanno di pesce. Gli uomini o le donne dico. Puzzeranno? In genere quando cucino il pesce apro porte e finestre. Accendo anche un paio di candele alla vaniglia. Non mi piace l’odore del pesce e neanche il pesce a onor del vero. Come pietanza dico. E neanche come animale. Non sono razzista e ci tengo a specificarlo. Mi piace di più il vino bianco che, come sempre ci hanno docilmente istruito chef e sommelier, col pesce si sposa benissimo. Se vengo invitata a cena e mi presentano quelle infinite, pompose e lussuriose portate a base di gamberoni, seppie, calamari, cernie e vongole io non tocco cibo. Bevo. E mi piace anche. 

Una volta ad una cena bevvi talmente tanto che finii a letto con uno sconosciuto. Era meglio che rimanesse tale. Cioè, lo conobbi a questa cena. Aveva gli occhi azzurri che spiccavano tra teste di gamberoni e chele di granchio. Ho bevuto solo catarratto, che non è la cataratta. Io ci vedo benissimo. Anche quando bevo. I pesci venivano dal mediterraneo e il vino dalla Sicilia. ”Il catarratto è un vitigno autoctono siculo”. Annuivo quando il mio ospite mi parlava descrivendomi per filo e per segno portate e abbinamenti. Io annuivo e bevevo. Mi spiegò tutto. Io ci ho capito poco ma va bene così, va bene. In generale, dico. Aveva gli occhi azzurri. Ma non come un oslese o oslaziano o oslonico…insomma come uno che arriva da Oslo. Lui era, o meglio dire è visto che malauguratamente non è ancora morto, basso. Oddio non era/è un nano ma sicuramente non era/è come uno che viene da Oslo. Né basso né alto. Direi mediterraneo se non fosse per il fatto che era/è savoiardo. Discendente dei Savoia. Gente brutta insomma. Io no. Io sono arabo-spagnola, post barocca a tratti. Insomma quello sconosciuto lo conobbi quella sera alla terza bottiglia di vino e alla quindicesima MS club. Avevo male ai piedi per quelle stramaledettissime scarpe. 250 €. Messe 2 volte. Tacco 14. Maledette false modelle di Oslo. In senso biblico lo conobbi. Mi accompagnò lui a casa e salì da me. Da allora si trasferì in pianta stabile. Si chiamava Charles. Ho deciso che d’ora in poi ne parlerò al passato. Non per augurargli qualcosa di brutto, non mi permetterei mai. Ma perché mi va di fargli del male. Gratuitamente. Che poi gratuitamente non direi visto quello che m’ha fatto quel bastardo di un Savoiese. Non era ricco attenzione. Discendente della casata Savoia inteso come categoria. Come atteggiamento e modo di essere. Un fighetto del cazzo insomma. Dopo due giorni si trasferì da me in pianta stabile Charles. 

È arrivato lo scirocco. Sapevo che non avrebbe tardato. Ne avevo sentito le avvisaglie già da qualche giorno. Charles se ne è andato stamattina. Così, senza nessuna spiegazione ed io neanche ne voglio. Di spiegazioni intendo. La sabbia mi affanna la vista e l’ululare di quel vento del sud mi stordisce i timpani. Altro che Oslo. Ho lasciato la tavola apparecchiata come un altare. La tavola della nostra ultima cena insieme. Conservo ancora i piatti sporchi tra i mozziconi di due candele e un posacenere che dovrei decidermi a svuotare. Cose, case, mani, narici, strade, luci, fiori, erba tutto si tinge di terra. Tutto ha una patina rossastra. È re Mida che passa. Ad Oslo tutto questo non succede. Non ci sono mai stata ma lo so. C’è ancora il suo bicchiere sul mio altare, sul suo altare. Verso il catarratto nel bicchiere in cui ha lasciato l’ombra della sua presenza. Lo Alzo insieme allo sguardo e, contro luce, cerco le sue tracce. Bevo dalle sue labbra e il mio corpo si fa ebbro e molle. Col corpo fiacco mi trascino fino alla fonte con le labbra tumide a combattere l’arsura delle mie carni. Ho messo con cura le lenzuola bagnate agli stipiti delle mie porte. È un’antica usanza araba. I savoiesi non la conoscono questa usanza. Così il vento beffardo si incontra con l’acqua e inumidisce la mia caverna. Mi abbandono senza forze e il suo alito mi sfonda la nuca. Serro le porte, non entra più, non entri più. Bagnatemi le labbra. Se ne è di nuovo andato.

VB



5 commenti:

  1. Proprio come Didone! Il prossimo che si presenta sguinzaglio il doberman...
    R.L.

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  2. L'unica e' berci sopra,magari stavolta un rosso un po' corposo,per intenderci non meno di un 14'gradi.Sono sicura che in branda non cadra' piu' un Charles qualunque ma un intenditore. DIFFIDARE da chi beve bianco o solo bollicine,non e' mai troppo affidabile:)

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  3. mi piace questo racconto...
    GD

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  4. Io quando ti leggo ....riesco a vedere tutto ....le facce, i calici di vino, la patina della bottiglia, le stanze, la tavola apparecchiata, il posacenere pieno di mozziconi ...ed un uomo, di spalle ...che va via! Ti adoro.

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